“Com’era e dov’era” è stato il motto che ieri ha echeggiato per le strade ingombre di cantieri del centro storico di Mirandola, piccola cittadina emiliana della provincia di Modena gravemente colpita dal terremoto del 20 e 29 maggio 2012. Quattrocento (circa) storici dell’arte hanno camminato in corteo sotto la guida della brava Nicoletta Albrizzi per le strade della città, entrando (con la collaborazione del corpo dei vigili del fuoco) nelle tre principali chiese del centro storico. Il duomo dedicato a Santa Maria delle Grazie, la chiesa di San Francesco (la più danneggiata) e la chiesa del Gesù (piccolo gioiello barocco da mettere ancora in sicurezza) si sono rianimate per pochi minuti grazie agli storici dell’arte arrivati da tutta Italia e ai tanti mirandolesi che rientravano (per la prima volta) in possesso dei loro luoghi di culto.
“Com’era e dov’era” hanno ripetuto in tanti mentre ci si muoveva con attenzione sotto i ponteggi e i puntelli che preservano quello che resta della facciata della chiesa di San Francesco, una delle più antiche d’Italia tra quelle dedicate al santo dei poveri, Phanteon della famiglia Pico con le belle arche pensili (salve nonostante il rovinoso crollo dell’edificio).
“Com’era e dov’era” hanno ripetuto tutti (o quasi) gli urbanisti, gli architetti e gli storici dell’arte che sono intervenuti nel pomeriggio in Piazza Costituente di fronte al puntellato Palazzo Comunale di Mirandola, famoso per l’elegante portico, la collezione dei ritratti dei Pico e le raccolte d’arte tra cui spiccava l’Adorazione dei magi di Palma il Giovane.
La giornata di ieri ha voluto dare una riposta netta e precisa al comportamento del Ministero per i beni e le attività culturali riguardo la tutela dei beni architettonici colpiti dal sisma. Un netto e giustificato NO ad una proposta che definirei quasi “criminale” sulla quale si muoveva l’intero padiglione ministeriale alla Fiera del Restauro di Ferrara del 2013, ovvero: Dov’era, ma non com’era. Un’affermazione che ha portato ad un comportamento assurdo e ingiustificabile, quello delle demolizioni di numerosi edifici storici e della conseguente loro irrimediabile perdita.
Il 15 ottobre del 1996 una scossa di 5,4 gradi Richter (VII grado della scala Mercalli) alle ore 11 e 56 colpisce duramente l’Emilia Romagna. L’epicentro si trova fra Bagnolo (RE), Correggio (RE) e Novellara (RE). I danni sono ingenti sopratutto al patrimonio architettonico ecclesiastico. Moltissimi sono i campanili in gravissime condizioni, moltissimi gli edifici con gravi lesioni, ma la sovrintendenza interviene tempestivamente, senza alcun dubbio. Non si pone nemmeno la possibilità di poter abbattere gli edifici danneggiati o i campanili lesionati, l’unico obiettivo che ci si pone è quello della messa in sicurezza e del consolidamento per poter salvare il patrimonio artistico nazionale, restauralo e restituirlo alla pubblica fruizione nel minor tempo possibile. Allora molti furono gli interventi diretti, a spese della Sovrintendenza, e nell’arco di pochi mesi molti edifici tornarono agibili e sicuri, dopo consolidamenti che hanno retto benissimo anche al recente evento tellurico.
Nel 2012 invece, le Sovrintendenze senza fondi, senza sufficiente personale e prive anche di quella che definirei una minima “lungimiranza”, hanno lasciato via libera ad una consistenza campagna di demolizione del patrimonio architettonico. A Sant’Agostino il palazzo comunale (assurto a simbolo di un patrimonio sfregiato dalla furia del terremoto) è stato fatto saltare con cariche di esplosivo nel più totale silenzio, il campanile della chiesa parrocchiale di Buonacompra demolito, il campanile della Chiesa di Poggio Renatico fatto addirittura brillare con tanto di “piacevole” filmato da passare ai media, la torre dei modenesi di Finale Emilia gravemente ferita durante la prima scossa del 20 maggio è stata fatta crollare dopo diverse ore di stato vegetativo e l’elenco potrebbe continuare.
“Cosa è accaduto allora dal 1996 a oggi da cambiare la teoria della conservazione?” ha chiesto giustamamte Salvatore Settis in un messaggio fatto arrivare a Mirandola, essendo purtroppo impossibilitato a presenziare. E la riposta che il professore calabrese non dubita a dare è semplicemente: “L’Aquila, dal 1996 a oggi è avvenuto il terremoto dell’Aquila e la sua mancata ricostruzione” Non si è scelto di salvare il centro storico ma di costruire le New Towns. Distanti anche km dal centro abitato, le decontestualizzanti periferie di berlusconiana fama, costruite con un enorme spreco di denaro pubblico (costate molto di più del valore di mercato) , hanno distrutto ciò che il terremoto non era stato in grado di sgretolare: la comunità e la socialità, dividendo famiglie, costringendo gli aquilani a vivere in periferie deserte senza servizi, luoghi di aggregazione e attività economiche una ricostruzione mancata ha minato alle basi la concezione stessa di città e del ruolo del patrimonio nella comunità civile.
Nell’emilia colpita dal sisma sembra quasi che si sia preso spunto dal dramma (dalle caratteristiche e dalla portata ben diversa) del terremoto abruzzese, proponendo addirittura una ricostruzione arbitraria dei centri storici accampando la scusa di una mancata presenza dell’architettura contemporanea nei nostri centri urbani. Ma se per architettura contemporanea intendiamo le squallide e urbanisticamente insostenibili periferie che accerchiano le città italiane, allora il progetto di una ricostruzione dov’era, ma non com’era non solo diviene un errore, ma si presenta addirittura come un piano diabolico per la cancellazione dell’identità locale di tante comunità.
La visita ai monumenti del centro storico di Mirandola è stato un ribadire il nostro chiaro e netto NO di storici dell’arte alla logica assurda della salvezza del solo capolavoro, alla pratica della demolizione per fare spazio ad una ricostruzione arbitraria e dal discutibile valore. “Rinunciare al com’era e dov’era è un errore architettonico, urbanistico, giuridico, storico-artistico” ha ribadito Montanari dal palco di Mirandola “Tra alcuni storici del restauro, architetti e dirigenti dei beni culturali del ministero in Emilia Romagna passa la linea del “com’era ma non dov’era”. È un purismo formale legato a un pensiero alla Ruskin (il letterato, esteta, disegnatore e critico d’arte inglese di metà 800 innamorato dell’Italia, ndr) dove conta la materialità delle pietre. Una posizione intellettualistica che, non sempre con cattive intenzioni, si salda con la speculazione e con l’interesse al lavoro per tanti architetti”. Proprio da qui la richiesta diretta di Tomaso Montanari alla direttrice regionale dei Beni Culturali dell’Emilia-Romagna, Carla di Francesco (che ha delicatamente messo in dubbio più volte nella giornata la necessità del com’era e dov’era) di non considerare mai più il terremoto come “un’occasione” di ricostruzione, proprio come invece si ribadì più volte nel corso di diversi convegni al salone del restauro 2013 (convegni peraltro privi di contraddittorio, coma ha ricordato in uno straordinario intervento Elio Garzillo).
Una giornata, quella di ieri, che Italia Nostra e Tomaso Montanari hanno voluto considerare anche come un “atto di solidarietà verso le soprintendenze italiane”,”gli unici enti che, tra mille difficoltà, cercano di salvare quel che rimane del paesaggio e dell’ambiente italiani” e che verranno invece duramente colpiti da una ignorante e vergognosa riforma della Pubblica Amministrazione annunciata trionfalmente da Matteo Renzi, che prevede un’assurdo “accorpamento delle sovrintendenze e una gestione manageriale dei poli museali“. Bella la presenza dell’ex Ministro per i beni e le attività culturali Massimo Bray alla giornata emiliana: come l’anno passato non si è tirato indietro per dimostrare che le istituzioni ci sono e sono le protagoniste di un dibattito serio e costruttivo; scandalosa (a mio parere) l’assenza di Dario Franceschini attuale ministro per i beni culturali che non ha raggiunto la manifestazione nemmeno con un messaggio scritto, comprovando (forse) l’appoggio ad una riforma renziana del sistema di tutela che distruggerà la già sofferenti sovrintendenze.
“Com’era e dov’era” i commossi mirandolesi lo hanno ribadito più volte. Le lacrime di alcuni di loro nel vedere la chiesa di San Francesco sventrata, ridotta a rudere e adesso minacciata anche da una ricostruzione assurda, hanno toccato chi scrive molto più profondamente di tante letture svolte precedentemente. “La cosa più brutta è essersi ormai abituati ai ponteggi e alla distruzione. O forse è camminare nel centro storico e dare per scontato che i mie figli, ma non certo io, potranno rivedere la mia chiesa, il mio Palazzo Comunale, la mia Mirandola. Ma anche di questo non sarei sicuro”. Queste sono state le parole di un ingegnere e di sua moglie una volta abitanti in certo storico e ora invece trasferiti in affitto nella periferia modenese. Vogliono ritornare a vivere la propria città e vogliono rivedere i propri monumenti attivi e realizzati come prima. Perché a loro non interessa che quella sia una copia, interessa invece riconoscersi in un tessuto urbano e in monumenti che di quella città sono simbolo identificativo.
“Com’era e dov’era” non è un assurdo vezzo conservativo di storici dell’arte, architetti e urbanisti. Come ha fermante ribadito (con un intervento memorabile) Vezio de Lucia, straordinario e instancabile presidente dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, nonché raffinato urbanista, noi che abbiamo presenziato alla grande festa democratica di Mirandola “non siamo nostalgici, non siamo passatisti, siamo coloro che si oppongono alla regressione, all’omologazione distruttrice dell’autenticità, noi preserviamo il passato per salvare il futuro” perché una zona rossa o un centro storico gravemente danneggiato è una questiona nazionale ovunque si trovi, perché cancellare il passato con una ricostruzione arbitraria o musealizzare le rovine vuole dire bloccare la storia e quindi bloccare e cancellare la vita e il popolo. Da Mirandola e l’anno precedente dall’Aquila si è alzato un grido per gli storici dell’arte che non studiano più architettura (ma che si baloccano con le opere mobili), per gli architetti che non studiano più l’urbanistica (ma che si compiacciono nella costruzione di autoesaltatorie cattedrali nel deserto) e per gli urbanisti che non considerano più la loro attività come una attività politica; non c’è più tempo per aspettare domani. La ricostruzione deve essere fatta, subito, com’era e dov’era, per non distruggere il legame vitale tra una comunità e il suo territorio: fatto di paesaggio e patrimonio artistico.
A presto
Rò
Foto di Vittorio Pio Cristofori