Emanuele Luzzati è entrato nella mia vita come un fulmine a ciel sereno. Nel dicembre del 1996, il mensile AMADEUS pubblica un supplemento speciale che accompagna la favola musicale di Pierino e il Lupo di Sergej Prokof’ev, (ri)scritta e narrata da Dario Fo, con l’accompagnamento musicale dell’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, (diretta da Alun Francis) e illustrata magnificamente da Luzzati.
Tralasciando la straordinaria lettura di Dario Fo (che avevo contemporaneamente conosciuto come doppiatore nel lungometraggio “La Freccia Azzura” di Enzo d’alò) e la bellezza dell’opera di Prokof’ev, lo scrivente consumò (letteralmente) il supplemento contemplando per ore le creazioni dell’artista genovese, fino ad allora sconosciuto.
Ero rapito dai colori e dalla bidimensionalità di quelle sue figure di enorme dolcezza, da quei movimenti cubisti, da quel recupero del già disegnato, dal polimaterismo e dal papier collé (visibile proprio nella foto di copertina), dall’uso scomposto (eppure così pensato) dei sui pastelli, dal suo tratto sporco e determinato che in pochi segni crea il suo (e il nostro) mondo.
Luzzati mi rapiva e per la prima volta da bambino ero spinto verso le sue opere con l’inarrestabile e allora incomprensibile voglia di farle mie, quell’amore dell’arte che viene confuso con voglia di possesso, ma che in realtà è voglia di fare interiormente proprie le opere, comprenderle, amarle nei loro dettagli, osservare ogni segno con gioia e felicità e amarlo per la sua gentilezza e spontaneità.
Luzzati è stato il primo artista del quale riconoscevo le opere a prima vista, la sua mano e la sua tecnica sono inconfondibili, i suoi Pulcinella i suoi presepi, le sue dame e animali sprizzano gioia e fanciullesca vitalità ineguagliabile.
Ma relegare Lele (così come lo chiamava il grande amico di sempre Paolo Poli) alla sola produzione collegata al mondo dell’infanzia (produzione peraltro non certo minore, ma di intensa e sconcertante bellezza e profondità) vuole dire davvero non riuscire a comprendere la grandezza di uno dei più grandi artisti italiani del secondo novecento. La mostra in corso al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara (visibile fino al 27 luglio 2014), curata da Sergio Noberini, Direttore del Museo Luzzati di Genova, e da Michela Zanon, Direttore del Museo Ebraico di Venezia e membro del Comitato Scientifico del MEIS, mette difatti in luce un’interessantissima parte della produzione del maestro: quella collegata al tema ebraico, che ha trovato spazio nella lunga carriera dell’artista attraverso i più diversi mezzi artistici ai quali si è avvicinato (dall’illustrazione per l’infanzia, alle serigrafie, dalle scenografie per prosa, lirica e danza nei principali teatri italiani e stranieri a pannelli, sbalzi e arazzi, fino ai film d’animazione).
“VITA, COLORE, FIABE; Il mondo ebraico di Emanuele Luzzati” attraverso tre sezioni (che corrispondono alle tre grandi sale espositive del costituendo museo nazionale) mette in mostra numerose opere con l’obiettivo di approfondire un tema affrontato l’ultima volta nel 1997 nell’ambito del secondo Festival di cultura ebraica di Venezia in una esposizione dal titolo “Viaggio nel mondo ebraico di Emanuele Luzzati” che permise una lettura molto interessante del rapporto dell’artista con il proprio mondo religioso. Ora invece, illustrazioni originali, bozzetti, tavole, ma anche teatrini dipinti a mano, fotografie e ceramiche, provenienti dall’archivio del Museo Luzzati di Genova vanno a formare un nuovo percorso che a sette ani dalla morte del maestro ripropone al pubblico locale e internazionale una nuova possibile lettura delle creazioni artistiche ebraiche del genovese.
Molto interessante la scelta dei curatori di suddividere le opere (alcune anche di notevole formato) non in ordine cronologico ma secondo tre grandi nuclei tematici che compaiono anche nel titolo della mostra.
Il visitatore si immerge subito nel mondo ebraico dell’immediato dopoguerra dove un giovanissimo Luzzati, appena ritornato dalla Svizzera dove si era rifugiato per studiare arte durante il secondo conflitto mondiale, inizia a collaborare all’ Israel liladim (Israel dei bambini) come creatore delle copertine, ma sopratutto come creatore delle avventure di Guz, l’asino chaluz (pioniere) prima e come creatore de “Le disavventure di Iossi” un ragazzino di kibbuz poi.
Ci si sposta poi a conoscere la produzione collegata alle varie fasi dell’esistenza e del calendario ebraico, che Luzzati ha saputo raccontare con gioia e freschezza, ad esempio nelle grandi scenografie sul matrimonio (bellissime le scene di matrimonio ebraico realizzate a tecnica mista e collage come se fossero delle piccole scene teatrali o le due Ketubbàh provenienti da collezioni private e realizzate a pastello su carta nel 1977 e nel 1998), la sukkah e il Seder di Pesach (da togliere il fiato per la grandiosa bellezza la grande scena realizzata a tecnica mista su legno presente nella seconda sala), oltre che nelle illustrazioni per l’Hagaddah di Pesach (pasqua).
E poi ancora la sezione dedicata al teatro (portata avanti per Paolo Poli fino a qualche mese prima della morte) che raccoglie alcuni bozzetti scenografici per il Dibuk del Teatro Regio di Torino del 1982, per la celebre e ancora famosissima catasta di sedie del Golem del Teatro la Pergola di Firenze del 1969 e per la storica Lea Lebowitz del Teatro Nuovo di Milano nel 1947 realizzata con Alessandro Fersen, per arrivare alla commuovente e deliziosa sezione dedicata all’illustrazione libraria con i lavori in monocromia, dal “Golem” a “Le distese del cielo”, dalla storia del “Baal Shem Tov” di Isaac B. Singer a “Il Fabbricante di specchi” di Primo Levi e concludere con le tavole originali del film d’animazione “Jerusalem” (1991) realizzato con Gianini e proiettato in mostra con il piacere di fanciulli e signori.
Una mostra davvero ben fatta nei contenuti, che dà nuovamente risalto ad una parte ancora troppo poco conosciuta dell’artista genovese che dovrebbe essere invece maggiormente valorizzata e studiata. Interessante l’allestimento anche se non proprio chiarissimo per il visitatore meno esperto e conoscitore dell’artista, che spesso vaga da un’opera all’altra nel rischio di essere puramente appagato dalla bellezza dei lavori di Luzzati, senza però in realtà davvero comprendere il messaggio delle opere esposte. Spiace forse un po il fatto che la mostra sia così piccola (scelta sicuramente collegata alla grandezza degli spazi della palazzina dell’ancora embrionale Museo) ma vive la speranza che con l’apertura del vero e proprio MEIS sia possibile ripetere un evento espositivo realizzato a Luzzati, magari in spazi più ampi e con sezioni più approfondite grazie a maggiori prestiti dalla collezioni delle comunità ebraiche italiane (troppo forte a mio parere l’assenza delle grandi scene lignee della scuola e del Rosh-Hashana del Museo Ebraico di Bologna)
Emanuele Luzzati ha segnato profondamente la scena artistica italiana ed europea del secondo dopoguerra, facendosi spazio con uno stile autonomo e riconoscibile, dalla potente e fortissima capacità espressiva “dove l’universo che l’artista racconta è vorticosamente animato da tinte rutilanti” (M. Zanon). Una personalità forte e decisa caratterizzata da un sincera spontaneità, “in ogni sua figura c’è una capacità di introspezione psicologica quanto il disegno è essenziale, allegro, si potrebbe dire fanciullesco. Illustratore di caratteri, di situazioni, di sconvolgimenti pscicologici Luzzati ha la capacità di sorprendere. I suoi segni non sono solo dipinti, ma dialoghi, riflessioni filosofiche, offerti con uno sguardo disincantato eppure terribilmente profondo, capace di intuizioni fulminanti” (R. Calimani)
In un recente testo curato da Luca Scarlini e pubblicato da Einaudi con il titolo titolo: Alfabeto Poli, lo straordinario Paolo Poli descrive Emanuele Luzzati e il loro rapporto di amicizia (oggetto anche della bellissima opera di Marina Romiti: Paolo Poli e Lele Luzzati: Il Novecento è il secolo nostro, edito da Maschietto Editore) attraverso alcuni eventi che credo descrivano benissimo la personalità di Lele:
“Io gli davo le indicazioni e lui faceva come gli pareva. Andavo da lui e gli dicevo: «Vorrei un salotto stile settecento». Luzzati prendeva un catalogo faceva due fotocopie, le ritagliava, disegnava due colonne e via. E io ribattevo: «Ma hai fatto la prefettura di Firenze! tutti la riconoscono: è la sala di Luca Giordano di Palazzo Medici Ricciardi». E lui:«ma no, non la riconosce nessuno! Comunque ti ci metto davanti delle statue che pisciano, così stai tranquillo» Un’altra volta: «Ma che hai fatto una torre?» e lui: «sì, non volevi una torre?» «Ma no ti avevo chiesto un convento!» «Non ti preoccupare tanto te lo sistemi da te». (…) Come si fa senza Luzzati? Come si fa con queste perdite? Male.”
A presto
Rò