Nel 1985 il grande Renzo Arbore, insieme all’autore televisivo Ugo Porcelli, idea un nuovo programma per quello che all’epoca bastava chiamare “il secondo canale”: Quelli della notte.
Di una semplicità disarmante, ma di una potenza sociale deflagrante, il programma (che venne trasmesso dal 29 aprile al 14 giugno 1985) intervallava a scherzi e sketch comici (memorabile Nino Frassica con fra’ Antonino da Scasazza) brani musicali scritti dallo stesso Arbore ed eseguiti in massima parte dalla New Pathetic Elastic Orchestra. L’obiettivo satirico del programma era ovviamente quella moda tipicamente italiana di fine anni settanta del salotto televisivo, “spesso vacuo raccoglitore di chiacchiere senza costrutto, in un maldestro assortimento dei più svariati personaggi che dicono la loro, a ruota libera, su qualunque argomento”. E proprio a ciò si riferiva anche la sigla, che attribuiva ad artisti e poeti citazioni assurde e ironiche, in un ritmo tanto facile e divertente da rimanere nella memoria collettiva anche di chi, proprio come lo scrivente, non vide mai il programma (essendo nato nel 1991).
Evidentemente tra il pubblico che rese “Quelli della notte” un programma cult degli anni ottanta c’era anche l’allora ventiquattrenne Marco Goldin (nato a Treviso nel 1961), che deve essere rimasto fulminato dall’ironica idea di Arbore e dalle parole di quella memorabile sigla.
«Lo diceva Neruda che di giorno si suda – Ma la notte no! Rispondeva Picasso, io di giorno mi scasso – Ma la notte no!»
Queste parole devono essere rimaste impresse a fuoco nella mente del nostro commerciante (difficile sarebbe considerarlo un critico e altrettanto un curatore), tanto da portarlo (circa 30 anni dopo) a concretizzare quello che lui stesso ha definito in conferenza stampa un progetto sentito e (ahinoi) profondamente pensato dedicato alla notte. E così lo scorso 24 dicembre 2014 il nefasto evento si è abbattuto su di noi e il re mida delle esilaranti mostre show del triveneto, il “pannellatore” folle della Basilica Palladiana, l’oscuratore delle finestre del Palazzo della Gran Guardia, l’auto-citatore provetto, il mago dei bookshop (al secolo Marco Goldin) ha inaugurato l’ultima blasonata mostra della sua fornace demoniaca di esposizioni chiavi in mano e soldi in portafoglio (il suo).
Affascinato dall’idea che la notte avesse a sua volta sicuramente “affascinato” qualcun altro oltre a se stesso e alla sua gloriosa mente, con il plauso (forse meglio definirla connivenza) del Comune di Vicenza e non solo, Linea d’Ombra ha portato sotto la grande volta della basilica palladiana un centinaio di opere che a detta del “curatore” rientrerebbero nel grande calderone della notte intesa come fatto fisico/visivo, come metafora di uno stato d’animo, come “immagine di uno spazio che è vicino e lontano al tempo stesso. Immagine della realtà e del dissolversi di quella stessa realtà. Racconto e annullamento del racconto, nuovamente realtà che si spinge oltre la realtà.” (come scrive lo stesso Goldin in un comunicato stampa criptico e onirico).
Per riuscire però a comprendere appieno il grande calderone vicentino bisogna operare una attenta analisi del titolo dell’esposizione: “Tutankhamon, Caravaggio, Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento“. Un titolo corposo per una esposizione che, come commenterebbe una mia cara amica, è tutta “fuffa”.
È nei titoli infatti che Goldin esprime tutto il suo straordinario spirito di venditore. Come il Gatto e la Volpe di Collodi, abile destreggiattore di parole, il permaloso speculatore trevigiano non ha paura di mettere in evidenza tutta la mancanza di didattica, studio e ricerca nei sui titoli particolarmente accattivanti (questo devo ammetterlo).
Tre grandi nomi che hanno come unico scopo quello di essere specchietto per (mi si permetta di dirlo senza alcuna offesa) sprovveduti consumatori che non particolarmente afferrati in materia, vogliono giustamente arricchirsi attraverso un tanto declamato evento culturale. Peccato però che se di Van Gogh sono effettivamente sparse in mostra quattro opere (tre in una sezione e una in quella conclusiva) e altre tre rappresentano l’osannato nome di Caravaggio, nessun opera presenzia nelle prime sale in rappresentanza del tanto declamato Tutankhamon, se non per una riproduzione della testa del giovane faraone. Ma di ciò in effetti non c’è da stupirsi. Lo stesso Goldin nel corposo catalogo, vero collante di tutto questo assurdo elenco telefonico di opere, nel capitolo dedicato alla prima sezione intitolata “LA NOTTE SEGUE IL FIUME. GLI EGIZI E IL LUNGO VIAGGIO” scrive:
“Devo fare una confessione, e farla proprio qui, all’inizio di questo capitolo (sezione 1 della mostra, ndr). È venuto un momento, nella preparazione di questa mostra, in cui qualcosa è cambiato. O meglio, si è aggiunto. È diventato un nuovo inizio. Ho avuto il bisogno di approfondire un lato della notte, un suo confine, che fino ad allora era detto solo con gli esempi della pittura. Quel bordo di buio che fa diventare la notte veramente eterna. Qualcosa che ha a che fare con l’assenza, con il viaggio, il viaggio verso un altrove.”
Traducendo la poeticità della scrittura romanzesca di Goldin, possiamo dire che improvvisamente il curatore, cioè egli stesso, o si è reso conto che mancava una premessa al suo onirico percorso personale nella storia dell’arte in notturna o il caro vecchio Museum of Fine Arts di Boston (prestatore o meglio dire locatario solito per Linea d’ombra) metteva in offerta, per un prezzo irrisorio oltre a quello già concordato per i dipinti, 22 pezzi tra sculture e oggetti della propria collezione egizia. Perché allora non approfittare? Peccato però che, come ci fa notare in maniera attenta e saggia Pino Dato nel Numero 6 di Quaderni Vicentini, i reperti, principalmente statuette, alabastri, granodiorite, gneiss, pietra nera, gesso dorato, quarzite e calcare, sono quasi tutti del cosiddetto Medio Regno e della XX dinastia, periodo ben diverso dalla XVIII dinastia e del Nuovo Regno a cui appartiene Tutankhamon. Ma a Goldin poco frega se c’è un grave errore storico e ancora meno frega se nulla centrano con il tema della notte un vasetto rituale, una chiave della vita, un rotolo di papiro, un bastone da lancio in miniatura e la riproduzione (ovviamente moderna) della testa di un sovrano assolutamente non collegato agli oggetti appena citati. Al re dei commercianti (ottimo commerciante anch’egli) interessano i denari e il nome del giovane regnante, riscoperto da Edward Carter nel 1922, porta tanti visitatori ammaliati dal mistero del faraone bambino.
I titoli delle esposizioni temporanee dovrebbero essere limpido specchio del proprio contenuto, ma ancora una volta Goldin dimostra che contravvenire a questa muta regola sia diventata una malsana abitudine nel panorama italiano. Così, ad aiutare un titolo che a questo punto potremmo addirittura definire ingannevole e falso (non essendo presente nessun vero reperto appartenente a Tutankhamon), arriva un sottotitolo tanto ricco di aspettative da risultare addirittura ironico e grottesco: “La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento”, come a dire: “mummie o mignotte, purché sia di notte“. Ironico e grottesco perché se risulta già di estrema difficoltà la trattazione del tema del notturno nelle espressioni artistiche attraverso uno scritto teorico (che non movimenta le opere, ma le connette tra loro attraverso riproduzioni fotografiche), praticamente impossibile è affrontare un tema così vasto attraverso una mostra temporanea. Ammesso poi che si decida di avventurarsi in una così grande impresa, l’esposizione sarebbe ovviamente anticipata da una lunga ricerca, talmente vasta da risultare impossibile alle forze di un solo uomo, che sarebbe difatti affiancato da un comitato scientifico, a sua volta composto (visto il tema) dai più grandi e riconosciuti storici dell’arte del pianeta.
Ma alla base di queste mie ipotesi risiede sempre la volontà si realizzare un progetto serio, che si possa definire pienamente culturale e che rientri a pieno titolo nelle metodologie scientifiche di ricerca della Storia dell’arte. Alla base dei pensieri goldiniani però, nulla di tutto ciò è riscontrabile. Nessun progetto di ricerca, nessun comitato scientifico, nessuno storico dell’arte (e con storico dell’arte intendo studiosi riconosciuti non semplicemente laureati in materia), nessuno studio, nessuna volontà didattica, nessuna cultura risiedono nelle fondamenta del catafalco funebre alla memoria della storia dell’arte che la mostra vicentina è in sostanza. Solo Goldin firma un lunghissimo ed surreale catalogo creato appositamente per giustificare un raduno indiscriminato di manufatti frutto di secoli di evoluzione della società umana. Un catalogo in cui senza vergogna alcuna Goldin, autore, scrittore e poeta visionario esprime come “sente all’interno del suo animo, la sera e la notte attraverso le opere di quello o questo autore” affermando: “non posso quindi nascondere come questa mostra sia, o possa essere anche , una pagina di diario della mia vita”.
Tradotto per noi comuni mortali, che l’italiano lo utilizziamo privo di tanti inutili barocchismi di cui invece il catalogo dell’esposizione è pieno, l’evento della Basilica Palladina non è una mostra di Storia dell’arte, è l’esposizione di come la notte e le rappresentazioni artistiche dalla stessa sono viste e lette da Marco Goldin. La morte della Storia dell’arte insomma. La morte del pensiero individuale che ogni autore inserisce all’interno di ogni sua singola opera. La morte delle metodologie scientifiche di una materia che possiede un rigore così come la storia, la letteratura, la matematica o l’ingegneria. L’arte, di cui anche noi siamo proprietari e responsabili, piegata alle volontà egocentriche ed auto-esaltatorie di un singolo, piegata per illustrare il suo pensiero in un grande show in cui sia culturalmente che economicamente (tutti gli introiti della mostra sono riservati a Linea d’ombra mentre le spese di gestione, sorveglianza, pulizia, allestimento al Comune) la città di Vicenza, la comunità scientifica e il grande pubblico, nulla guadagnano. Un’esposizione che diventa (mi si perdoni la ripetizione della similitudine) spettacolare catafalco funebre della vera cultura, ma allo stesso tempo enorme monumento al narcisismo di un presunto curatore.
Se già così la situazione culturale italiana somiglia (o forse è) un disastro apocalittico, fa ancora più male vedere e leggere come ciò che dovrebbe logicamente essere l’apice tra le migliaia di negatività riscontrabili in questo evento, venga esaltato come elemento di assoluta positività. E così Caterina Stringhetta sul suo ART POST BLOG arriva a scrivere:
“Di solito si va a vedere una mostra o un museo per ammirare dei capolavori, studiare da vicino un artista, capire qualche cosa in più sui motivi e sul contesto storico che hanno portato alla creazione di un’opera. Se cercate una mostra di questo tipo qui, a Vicenza, non la troverete! Questa mostra è un viaggio alla scoperta di Marco Goldin, del suo sentire la notte come un luogo dello spirito e vi troverete per forza a domandarvi il perché di certe sue scelte (…)”.
E infatti ce lo chiediamo, perché? Perché mai le opere di numerosi musei statali italiani (cioè della collettività, cioè anche nostre) come il doppio ritratto di Giorgione del Museo nazionale del Palazzo di Venezia o il Narciso di Caravaggio della Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini devono essere utilizzate per una mostra che ci porta “alla scoperta di Marco Goldin”? Perché la storia dell’arte deve piegarsi, perdendo di qualsiasi valore morale e riducendosi a sterile piacere per gli occhi, per l’esaltazione di un singolo narcisista curatore, a favore del suo portafoglio? Ma spero non rendendosi conto Caterina continua, e dopo aver citato una frase di Goldin che fa accapponare la pelle (“Io non so se esiste un modo oggettivo e perfetto di creare una mostra. Non lo so e non mi interessa. Cerco piuttosto la singolarità, l’eccezione. Il fermarsi e il sentire la pressione che su di me fa la vita“) afferma:
“Questa mostra è speciale e deve essere vista, perché qui Goldin definisce un nuovo modo di essere curatore, rivendica il diritto di realizzare mostre di successo e che non pretendono di insegnare nulla oppure di scoprire nuovi aspetti della storia dell’arte.”
Goldin rivendica cioè il diritto di divulgare l’ignoranza. Rivendica non un nuovo modo di essere curatore, ma un nuovo modo di essere commercianti, di ridurre le opere pubbliche a mezzo di guadagno personale, senza la fatica di un progetto scientifico serio che porterebbe via soldi e tempo. Rivendica il diritto di essere il centro di una riunione di opere con accostamenti forzati o erronei, dove la notte o la sera viene ricercata a tutti i costi. Rivendica il diritto di realizzare cose che non sono mostre, perché le mostre in se hanno il salvifico seme della didattica. Goldin e chi lo appoggia difendono la sterilità, la volontà di mostre volutamente prive di senso che gettano negli occhi degli spettatori (ore diventati consumatori) la polvere di una operazione pseudo-culturale che in realtà in nulla ha arricchito moralmente un pubblico passivo. Usando le parole di Adorno in Minima moralia del 1951, la macchina di Goldin “piomba sullo spettatore come il direttissimo ripreso frontalmente nell’atto di massima tensione”. Il tono è quello della strega che somministra il cibo ai piccoli che intende ammaliare o divorare con la raccapricciante litania: “Buona la minestrina, ti piace la minestrina? Ti farà tanto, tanto bene!“
E a tutto ciò si aggiunge anche Alessandro Zangardo che sul Corriere del Veneto ha l’ardire di considerare “boicottaggio” la scelta saggia e legittima di un gruppo di professori del Liceo Pigafetta di Vicenza, di non accompagnare le proprie classi alla mostra, considerando addirittura “oscurantiste” le posizioni dei docenti che hanno invece impartito una straordinaria lezione di autonomia critica ai propri studenti (visto anche il fatto che sarebbe stato impossibile smontare intellettualmente l’evento nelle stesse sale della Basilica, così come invece consigliava il giornalista, essendo vietata qualsiasi guida non dipendente dall’organizzazione).
Proprio come nel programma di Arbore del 1985, la mostra ospitata nella Basilica Palladiana, è il salotto scenario di un vacuo raccoglitore di elucubrazioni senza costrutto, in un maldestro assortimento di opere che prese singolarmente possono essere considerati veri capolavori, ma che insieme vengono sviliti del loro straordinario valore in una operazione meramente commerciale. Tante sono le differenze che intercorrono tra quel salotto televisivo e quello della mostra vicentina. Quelli della notte hanno segnato per sempre il modo di ridere degli italiani, con una comicità surreale e sopra le righe. Quello della notte, alias Goldin e la sua Linea d’ombra (mai nome fu più azzeccato) hanno sfregiato violentemente il modo e il valore della Storia dell’arte. La forte componente ironica di Arbore e dei suoi, faceva spegnere il televisore con le lacrime agli occhi. Anche dalla mostra di Goldin si esce piangendo. E posso assicurare, non sono lacrime di gioia.
A presto
Rò