Ancora una volta ciò che nella storia dell’arte è (quasi) una costante è, al contempo, vicino ai gusti di eminenti studiosi e ricercatori ma lontano dalle esigenze di cassa di quel mercato dell’emozione che domina la piazza espositiva italiana e, mi duole dirlo, europea. E così, nonostante (o forse proprio a causa) numerosi siano gli insigni storici dell’arte che, attraverso articoli o intere pubblicazioni, si fossero dedicati a studi specialistici, mai in Europa la fortuna del tema iconografico dei putti era assurta a protagonista di una esposizione monografica. L’incredibile vastità e diramazione del tema non deve avere certo aiutato una ricerca capace di analizzare, senza banalizzare o semplicemente elencare, un patrimonio artistico ampio e sfaccettato. Il rischio di una semplice, e a quel punto inutile, declamazione di opere caratterizzate dalla presenza più o meno consistente di putti, spiritelli, amorini, genietti e cherubini viene spazzato via da una curatela scientifica forte e ben pensata, frutto di lavoro di una squadra che, seppur piccola, riesce a competere qualitativamente con ben più grandi centri espositivi e di ricerca.
La mostra: “SPIRITELLI, AMORINI, GENIETTI E CHERUBINI. Allegorie e decorazione di putti dal Barocco al Neoclassico” a cura di Vittorio Natale, allestita presso il Museo di Arti Decorative Accorsi – Ometto di Torino fino al 5 giugno 2016, nonostante le sue contenute dimensioni, oscura tutta una serie di mostre a carattere tematico che da alcuni anni stanno ammorbando la nostra consunta penisola, mostrando il metodo (quello giusto) nel selezionare opere dal comune tema o dal comune carattere iconografico, pescando a piene mani dal proprio territorio (in questo caso il ricchissimo e dimenticato Piemonte).
Grazie ad oltre sessanta selezionatissimi oggetti (finalmente al centro anche le sempre più studiate arti applicate) provenienti sia da istituzioni pubbliche italiane che da ricercate collezioni private (italiane e straniere) con cui la Fondazione intrattiene un prezioso rapporto di scambi e studio, l’esposizione articola e suddivide il corposo tema in sei sezioni tematiche che sviluppano l’argomento scelto dal punto di vista privilegiato delle committenze sabaude e piemontesi.
Natale, anche grazie ad un prezioso e agile (forse troppo) saggio introduttivo presente nel catalogo edito con grande attenzione da Silvana Editoriale, apre il percorso partendo non dalle prime presenze di putti nella storia dell’arte (cosa per altro assai complessa da fare), ma dalla pensatissima origine del tema individuata dal dibattito storico artistico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in una ben precisa visione del rinascimento toscano.
Un periodo in cui il putto “viene identificato come un soggetto paradigmatico attraverso il quale si documenta la riscoperta di un nuovo naturalismo, capace di recuperare l’antichità classica e, contemporaneamente, di osservare la realtà per selezionarne gli elementi di più alta perfezione” (Natale). Una riscoperta dei putti operata con forza da Donatello, specie nella fase padovana, e ben individuata da Wilhem von Bode, primo storico dell’arte ad aver dedicato nel 1890 un importante articolo monografico.
I putti del rinascimento, da considerare più correttamente come spiritelli (una forza invisibile che anima il corpo umano, insita ad esempio nella musica) lasciano poi il posto ad ignudi amorini (i quali nel clima controriformato godono di una sorta di speciale extraterritorialità, che permetteva, solo nel loro caso, la raffigurazione di corpi nudi, non accettata invece per personaggi che non fossero fanciulli) o ancora meglio a casti e santi cherubini, come quelli di straordinaria bellezza di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo (già presenti alla memorabile mostra della Fondazione Cosso dedicata a Orsola Maddalena Caccia) o quelli scolpiti nel legno da Francesco Borrello e Cesare Neurone per la balaustra della Cappella della Sindone del Duomo di Torino, miracolosamente scampati all’ultimo devastante incendio di questo celebre ambiente guariniano.
Ma il punto più alto l’esposizione lo tocca nella sala dedicata ai putti come mezzo per complesse allegorie profane, dove con forza (seppur nell’assenza) entra in gioco la figura conosciutissima a livello locale, ma sconosciuta ai più, del cardinale Maurizio di Savoia (1593-1657), fratello del futuro duca Vittorio Amedeo I, e le sue preziose commissioni romane che portarono, non solo nel regno sabaudo, ad un ampio successo del genere.
Nel suo palazzo di Montegiordano, sede dell’Accademia dei Desiosi, formalmente fondata dal cardinal Maurizio nel 1626, nei pressi di Castel Sant’Angelo, il Princeps Ecclesiae conserva il prezioso acquisto della Lotta di tre amorini con tre baccarini di Guido Reni (ottenuta eccezionalmente in prestito dalla vicina Galleria Sabauda) affiancata poi, su commissione del cardinale, a partire dal 1625, da una serie di dipinti allegorici con tre putti, richiesti a Domenichino, al veronese Alessandro Turchi detto l’Orbetto, ad Alessandro Varotari detto il Padovanino e agli allievi di Reni Francesco Gessi e Giovan Giacomo Sementi. Come scrive, con straordinaria chiarezza, il curatore dell’esposizione : “la scelta piuttosto inusuale del cardinale fu quella di non far impersonare le allegorie da figure femminili, come secondo la tradizione ci si sarebbe potuto aspettare, ma da putti. In questo modo non si confermava solo una predilezione iconografica già rivelata dalla committenza dei tondi ad Albani” (i Quattro elementi commissionati nel 1626 per il palazzo romano) “e pienamente aggiornata sul dibattito contemporaneo, ma si inaugurava un nuovo filone iconografico, che avrà, con diversi accenti, grande diffusione per tutto il secolo successivo”.
La mostra inoltre propone una nuova tela inedita, restaurata per l’occasione, recuperata in gravi condizioni conservative dai depositi del castello di Racconigi e sicuramente appartenuta al Cardinal Maurizio, viste le comuni dimensioni e la straordinaria vicinanza iconografica. Attribuito al Sementi e Bottega (per il sottoscritto, con un ampio margine d’intervento dei collaboratori) il dipinto viene esposto riconducendo il soggetto (tre putti, di cui uno decorato da alte onorificenze, forse allegoria dello stesso Cardinal Maurizio) alla favola della contesa tra un albero di melograno e alcune piante di rose e di gigli narrata dallo stesso ecclesiastico in una seduta dell’Accademia romana da lui fondata. Una nuova attribuzione e il recupero di una tela quasi dimenticata, che forniscono l’ulteriore prova, senza che ce ne fosse comunque il bisogno, dell’assoluta qualità del progetto scientifico.
Il percorso si chiude con un’ampia sezione dedicata al tema squisitamente settecentesco dei giochi di putti (interessante la presenza di alcune tele di Vittorio Amedeo Rapous, mai più esposte dopo la storica mostra dedicata al Barocco del 1963, come L’arrotino) che trova nella produzione dello scultore in bronzi di Sua Maestà, Francesco Ladatte, una delle migliori interpretazioni, facilmente individuabile in alcune opere di straordinario livello come il Putto con Pellicano del Palazzo Reale di Torino o le toccanti allegorie delle stagioni in terracotta del Museo Accorsi, che si riuniscono all’allegoria della Primavera di collezione privata, permettendo uno studio (non banale) di uno scultore di elevatissimo livello e straordinaria versatilità tecnica, come dimostra la sua presenza nell’ultima sezione dedicata alle arti decorative, con una superba (è davvero il caso di dirlo) coppia di ventole a tre bracci con amorini e rocaille del Museo civico di Palazzo Madama.
La piccola mostra torinese affascina per il suo valore e la sua qualità, nonostante un allestimento (come avete visto nella newsletter dedicata) forse troppo affastellato e risicato, ma mai sbagliato (ottima l’illuminazione delle opere). Seppur molte potrebbero essere le cose da aggiungere in caso di una nuova esposizione (che a questo punto io credo necessaria per allargare la visione solo sabauda di quest’ultima), la mostra di Torino apre nuove domande, fornisce alcune risposte e inizia a porre ordine in uno studio tematico troppo spesso scontato. La Fondazione Accorsi – Ometto ancora una volta si rivolge verso la qualità, lo spessore scientifico e la ricerca, come aveva già coraggiosamente e meritoriamente fatto nel 2015 con la mostra “FASCINO E SPLENDORE DELLA PORCELLANA DI TORINO. Rossetti, Vische, Vinovo. 1737-1825” e nel 2013 con “PIETRO PIFFETTI. Il re degli ebanisti, l’ebanista del re”, dimostrando al sistema museale piemontese, e non solo, che a volte agli eventi “economicamente favorevoli” si possono anche, o forse si devono, anteporre gli eventi culturalmente rilevanti.
A presto
Rò
FOTO DI COPERTINA: Isidoro Bianchi, attribuito a (Campione d’Italia 1581-1662), Allegoria con putti, 1635 circa, olio su tela, cm 88 x 135 Torino, Pinacoteca dell’Accademia Albertina.