Ero rimasto già scosso qualche mese fa. Mai avrei immaginato che la Fondazione Carisbo e Genus Bononiae potessero cadere così in basso. Mai. Eppure i denari, quelli che neppure Giuda vuole più dopo aver tradito il figlio dell’uomo, fanno fare questo ed altro. La fama poi, il clamore mediatico del “grande” evento, le file chilometriche per le strade di Bologna, i Bookshop assaltati da un pubblico che tutto compra tranne che books, spingono dove nemmeno Goldin (il maestro indiscusso delle mostre ridicole) era mai arrivato.
Ho conosciuto la sede espositiva di Palazzo Fava nel settembre del 2011 (durante la mia annuale permanenza in città per Artelibro) con la mostra “I 1000 di Garibaldi, quelli che vollero inventare l’Italia” a cura di Philippe Daverio, Massimo Negri e Roberto Guerri. Sono tornato nel Palazzo, splendidamente affrescato dai Carracci, circa un anno dopo per visitare una mostra davvero ben fatta, curata da Angelo Mazza e accompagnata da un catalogo scientifico non straordinario ma abbastanza degno di questo nome, dedicata alla collezione del Maestro Molinari Pradelli (“Quadri di un’esposizione. Pittura barocca nella collezione del maestro Francesco Molinari Pradelli”). L’anno successivo sono stato contattato dallo staff stesso delle sede espositiva per presenziare al vernissage di una mostra che ha segnato un passo importante per la ricerca sull’arte contemporanea italiana del secondo novecento: “Arturo Martini. Creature, il sogno della terracotta” a cura di Nico Stringa, che per la prima volta presentava assieme le grandi terrecotte ad esemplare unico realizzate direttamente dall’artista tra il 1928 e il 1932. Da allora a Palazzo Fava non sono più tornato, ma la mia risposta a chi mi chiedeva come giudicavo l’esperienza di Genus Bononiae era più che positiva. Credevo Palazzo Fava luogo di esposizioni serie, mai banali, a volte certo non adatte ad un grandissimo pubblico, ma di grande valore scientifico e di alto livello. Credevo che a differenza delle altre città, la fondazione Carisbo stesse lavorando controcorrente, in favore dello seria ricerca, valorizzazione, tutela, di quella cosa che sempre con più fatica riusciamo a trovare nel campo della storia dell’arte e delle mostre in specie: la qualità.
Ma la qualità forse non paga abbastanza o non riempie le casse di un ente (come la CARISBO) che fondamentalmente rimane una banca e da un investimento così consistente vuole anche un rientro. E allora il sogno svanisce. Come la carrozza di Cenerentola allo scattare della mezzanotte si trasforma di nuovo in zucca, così all’odore dei soldi Palazzo Fava si trasforma in mostrificio, con buona pace di chi aveva percepito in quel luogo, un sentore di diverso.
E chi chiamare per realizzare la magica trasformazione? Chi se non il re mida delle esilaranti mostre show del triveneto? Chi se non il “pannellatore” folle della Basilica Palladiana, l’oscuratore delle finestre del Palazzo della Gran Guardia, l’auto-citatore provetto, il mago dei bookshop? Chi se non Marco Goldin?
E Goldin a Bologna non corre, si precipita, portando con se una mostra già bella e confezionata con i capolavori del Mauritshuis, che in attesa del completamento del restauro manda in giro per il mondo la propria opera iconica (La ragazza con turbante di Vermeer) accompagna da qualche altro pezzo forte (ad esempio Rembrandt) che Palazzo Fava accoglie con la “modica” cifra di un milione di euro circa. Come ad ogni esposizione organizzata del nostro beneamato “diffusore di emozioni in comoda confezione evento” (alias Goldin) si scatena il dibattito sull’utilità e il valore di una esposizione vergognosa come quella, che con una “arguta” operazione di marketing si intitola sorprendentemente “La ragazza con l’orecchino di perla“.
Mentre Bologna in visibilio accoglie sciami di turisti mordi e fuggi, realizza vetrine a tema, si copre di manifesti e cerca di ripulire il “lordume” delle sue strade e delle sue mura coperte di graffiti, gli storici dell’arte mugugnano. Se tutti ci aspettavamo la voce contraria di Tomaso Montanari e di un certo ambiente accademico, mai (almeno io) mi sarei aspettato di sentire la critica durissima nei confronti di questa mostra da parte del protagonista della nostra storia: Vittorio Sgarbi, che ospite il 31 gennaio 2014 di una puntata di Virus (il “programma” di Nicola Porro in onda su Rai 2) afferma come quella di Goldin sia un’operazione che «serve a prostituire l’arte, invece che a difendere l’arte che rappresenta una civiltà» e aggiunge: «Alcuni quadri vanno per conto loro, diventano persone autonome: questo non è di Vermeer. È dell’umanità, è dentro di te. È allora inutile fare qualche chilometro di coda per andarla ad ammirare: non sarà il corpo materiale dell’opera a colpirci, ma la sua immagine, il suo simulacro. Basterebbe una riproduzione, in fin dei conti».
Colpo di scena! Seppur con una discutibile critica, Sgarbi attacca ferocemente la mostra in via di apertura a Bologna ma aggiunge fin da allora ciò che in questi giorni sta, con “diabolica” determinazione, portando a compimento. Afferma infatti: “l’Italia ha già tanto, troppo: un patrimonio che resta nell’ombra, quasi sempre, né capito, né valorizzato, né condiviso”.
Un patrimonio che resta nell’ombra. Ecco l’obiettivo di Sgarbi: mettere sotto i riflettori, gli stessi dei grandi eventi goldinani, il patrimonio locale che, a suo dire, resta nell’ombra. E Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bonoiae, ex Magnifico rettore dell’Università degli studi di Bologna, quasi per tenere a bada il critico più famoso della tv, decide di accontentarlo e in una recente intervista afferma: «Sgarbi mi chiedeva perché non si faceva mai una mostra sulle eccellenze artistiche di Bologna, critica centrata — ricorda Roversi Monaco —. Se fare ostracismo alle grandi mostre è sbagliato, non curarsi di ciò che la nostra terra ha dato è ancora più sbagliato». Se non si può dissentire sul fatto che la mancata attenzione al patrimonio locale sia un fatto vergognoso, ci sarebbe però da chiedersi per quale motivo il dottor Roversi considera sbagliato ostacolare una spesa vergognosa di denaro per le cosiddette grandi mostre, che con la storia dell’arte (quella vera, non il feticismo) nulla hanno a che fare.
Ma nella grassa e ormai ben poco dotta città della mortadella, Roversi e il presidente della Fondazione Carisbo, Leone Sibani, hanno ancora gli occhi che luccicano e i complimenti della Bologna “ignorantella” che rimbombano nelle orecchie dalla mostra della ragazza olandese e così aiutano la mente di Sgarbi nell’abominevole parto della mostra: “Da Cimabue a Morandi. Felsina Pittrice.” che occuperà le sale di Palazzo Fava dal 14 febbraio 2015.
Il progetto è molto semplice. Utilizzando il modello goldiniano del “DA.. A..” Sgarbi vuole raccogliere nelle sale cinquecentesche tutti i maggiori capolavori presenti in città, saccheggiando chiese e collezioni pubbliche dove sono solitamente visibili gratuitamente o con biglietti irrisori. E così si passa dalla “Maestà” di Cimabue della chiesa di Santa Maria dei Servi, alle opere di Vitale da Bologna, Giotto, addirittura all’Estasi di Santa Cecilia del Sanzio dalla Pinacoteca Nazionale, e “poi ancora dalla grande tela di Ubaldo Gandolfi (Diana ed Endimione) dalle Collezioni comunali d’arte, ai due ovali a tema mitologico di Marco Antonio Franceschini dal museo Davia Bargellini fino alle opere di Morandi dal Mambo”. E Marina Amaduzzi sul Corriere di Bologna.it continua estasiata: “E ancora opere di Girolamo da Carpi, Parmigianino, Prospero Fontana, Contarini, Guido Reni, Lavinia Fontana, Passerotti, Cesi, Crespi. Dagli Uffizi arriverà una Venere di Carracci, ancora dalla Pinacoteca il San Sebastiano del Guercino. Ancora opere di privati come il Ratto d’Europa del Cagnacci della collezione Molinari Pradelli o una Sacra famiglia di Nosadella dalla collezione Galliani, o come i tanti di proprietà della Collezione Carisbo come la Madonna del ricamo di Vitale da Bologna”.
Insomma un saccheggio dei musei della stessa città di Bologna che priva le collezioni cittadine dei pezzi principali, massimo richiamo di un pubblico già scarso. Ma se tutto questo non vi basta (è c’è materiale sufficiente per un film dell’orrore) vi aggiungo che Sgarbi cerca di trovare un senso a tutta questa “roba” (che non posso chiamare mostra, perché non lo è) considerandolo un omaggio ad uno dei maestri della Storia dell’arte: Roberto Longhi. Oltre al danno, la beffa.
«È la giornata più luminosa della mia carriera di storico dell’arte, perché questa mostra unisce il mio destino di critico e collezionista alla figura di Roberto Longhi» afferma felice Vittorio Sgarbi alla conferenza stampa di presentazione dell’evento. Ma se per Lui è la giornata più luminosa, per la storia dell’arte e tutte le persone che alla storia dell’arte hanno donato e cercano tutt’ora di donare l’anima e spendere per essa la propria vita, è la più triste. Sgarbi riesce forse dove nemmeno Goldin si era mai spinto. In poche settimane richiede in prestito opere che hanno come unico collegamento (magari anche lontano) la città di Bologna, creando un enorme deposito temporaneo dell’inutilità. Senza nessun progetto scientifico, senza nessun obiettivo didattico, senza nessun comitato scientifico (one men show), senza la men che minima operazione di pensiero se non quella di riempirsi la “saccoccia”, Vittorio Sgarbi uccide la storia dell’arte e la memoria di Francesco Arcangeli e Roberto Longhi. La infanga con una mostra vergognosa e inutile, priva di senso e logica, con l’unico obiettivo (parole sue) «di mortificare Goldin sul piano morale e determinare la stessa invidia che ho provato per lui».
Perché spostiamo i capolavori di Bologna (ogni spostamento è sempre un trauma per l’opera) per riunirli in un unico calderone? Forse dare a Sgarbi la possibilità di soddisfare la sua sete di vendetta nei confronti di Marco Goldin è un motivo sufficiente per approvare il prestito delle opere esposte? Non è forse vergognoso e triste che la Pinacoteca Nazionale ormai alla fame, sia costretta ad affittare i propri gioielli più preziosi (la Santa Cecilia di Raffaello) per sopravvivere? Perché i cittadini di Bologna dovrebbero pagare per vedere in un unico luogo ciò che solitamente è esposto nei musei della propria città o (gratuitamente) nelle chiese della propria diocesi? Perché spostare le opere e non portare invece i visitatori nei musei come sarebbe logico e naturale?
Sogghigna Sgarbi, «perché la gente è pigra, nelle chiese non ci va e non vuole pagare un altro biglietto nei musei. Lo spostamento è sommamente motivato» La gente pigra, quella a cui punta il re delle litigi in tv, non vuole conoscere, ma da passiva vive le mostre con il semplice obiettivo di essere emozionati. Che differenza esiste tra questa mostra e quelle di Goldin? Nessuna. Addirittura (non si leggano queste mie parole come un’approvazione) quella dedicata alla Ragazza con turbante, seppur nella assoluta assurdità, possedeva forse una maggiore chiarezza, presentando le opere di una sola collezione (quella del Mauritshuis) e di un unico periodo storico (il seicento olandese).
Ma il valore scientifico a Roversi e Sibani sembra non interessare e tutti felici che questa “esposizione” costi un decimo di quella precedente si accodano al critico d’arte che ha anche l’adire di affermare: “finalità di una mostra non è il profitto, questo è un goldinismo (riferendosi ancora a Goldin, ndr), le mostre si fanno per accrescere la formazione del pubblico”. Ironico detto dall’organizzatore di una mostra senza comitato scientifico e senza ricerca precedente, non trovate? Quale insegnamento dovrebbe fornire al pubblico il suo elenco telefonico di opere tolte dai loro soliti luoghi e ammucchiate in nome di una comunanza geografica?
In tutto questo mare di assurdità però, qualcuno sembra non aver ancora perso la rotta e così il professor Daniele Benati, presidente della sezione bolognese di Italia Nostra, scrive il seguente appello affinché il Ministro Franceschini e i funzionari preposti alla tutela del patrimonio cittadino e nazionale non concedano il prestito di dipinti importanti e di valore “identitario” per le sedi che li detengono:
Nel prossimo febbraio Genus Bononiae – Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna organizzerà una mostra intitolata “Da Cimabue a Morandi”. La mostra, curata da Vittorio Sgarbi è allestita in tempi ristrettissimi: le richieste di prestito dovrebbero partire oggi, senza rispettare i sei mesi che il Ministero pretende in questi casi. La mostra, dedicata a Roberto Longhi e a Francesco Arcangeli, proporrà in palazzo Fava una scelta di “capolavori” di proprietà della Pinacoteca Nazionale, dei musei e delle chiese cittadine insieme ad altri quadri di collezioni private e di antiquari. Tra le opere richieste alla Pinacoteca Nazionale figura nientemeno che la Santa Cecilia di Raffaello. La chiesa di Santa Maria dei Servi dovrebbe prestare la Maestà di Cimabue. La mostra, priva di alcun disegno storico e della benché minima motivazione scientifica, è un insulto alle opere, trattate da soprammobili; all’intelligenza del pubblico; alla memoria di Longhi e di Arcangeli – e naturalmente un attacco ai musei, con la colpevole connivenza di chi li dirige. Un simile sconcio non può passare in silenzio. Chiediamo alle istituzioni preposte alla tutela – dal Ministro Dario Franceschini al Soprintendente Luigi Ficacci – di impedirlo.
Le conseguenze di questo appello sono le 128 firme di professori e storici dell’arte di tutto il mondo, le relative querele di Vittorio Sgarbi, che cerca di trascinare il professor Benati in un provincialismo degno delle scuole elementari (“In realtà il problema è che la voleva organizzare lui”) e le affermazioni del presidente Roversi: “trovo fuori luogo e di cattivo gusto citare il lavoro di accademici valenti come Longhi e Arcangeli, ai quali certo lui non può essere paragonato nè paragonarsi. Cosa provo per lui? Una contenuta pietas”.
Come si concluderà la storia? Il ministro ha già affermato di non poter fermare l’esposizione e così molto probabilmente l’evento avverrà, i bolognesi si affolleranno per via Indipendenza, la Storia dell’arte morirà un altro poco e il pubblico non si arricchirà in nessun modo. Cosa resterà? Nulla, nulla e poi nulla se non denari sprecati e opere messe a rischio per un evento inutile.
Da giovane studente di storia dell’arte sono triste, sconsolato e indignato. Non è questa la storia dell’arte che mi hanno insegnato. Non sono queste le mostre che noi studenti e un pubblico più avveduto vuole e si merita. Non è questa la nazione che voglio, che vende come una meretrice le proprie opere a mostre vergognose.
Una lettrice del blog in un commento alla notizia del prossimo “evento” a Palazzo Fava ha scritto: “le mostre sono sempre un dono, mai un danno”. Le ho già risposto ma le rispondo ancora. Le mostre fatte male, come questa, non solo non sono un dono, ma sono un enorme danno. Un danno che sbriciola anni di ricerca, studio, restauri e lavoro serio di centinaia di funzionari, studenti, ricercatori, docenti preparati e motivati. Le brutte mostre, non solo sono pericolose, sono mortali per una materia giovane come la storia dell’arte, che viene intaccata là dove dovrebbe essere più viva e seria: nelle esposizioni.
Le mostre fatte male sono il cancro della cultura, che azzanna e corrompe tutto, e in una nazione in cui la ragione dorme, dilagano ovunque; come cellule impazzite si riproducono senza pietà, occupano spazi vitali e degenerano. Se l’Italia è il corpo della cultura e della storia dell’arte, le brutte mostre sono metastasi.
Da dove iniziamo a salvarci?
A presto
Rò