Addentriamoci ora nel vivo del sempiterno rapporto Arte-Filosofia.
Il nostro punto di partenza è un’opera che ricopre un ruolo fondamentale nella riflessione sulla natura dell’immagine, un vero e proprio topos della speculazione filosofica sull’arte, prima tappa di un cammino che deve essere percorso almeno una volta da tutti coloro che, come noi, sono profondamente convinti che l’arte sia una forma di conoscenza dell’altro e degli altri, prima che uno straordinario strumento di godimento per gli occhi e per l’animo.
Siamo nel 1656 quando alla corte di Spagna Diego Velázquez dipinge Las Meninas, celeberrimo olio (318 x 276 cm) conservato ora al Museo del Prado di Madrid divenuto non a caso meta di veri e propri pellegrinaggi di appassionati d’arte come di fotografia, di studiosi d’estetica e filosofi. Come mai un pubblico così eterogeneo?
Lo scopo che perseguiamo esula da qualsiasi illustrazione della magistrale perizia di Velázquez e tende piuttosto a comprendere il motivo per cui tutti, e non solo gli addetti ai lavori, si preoccupano ormai da secoli di dire la loro sull’opera in questione.
Anziché dilungarci in doviziose descrizioni dell’immagine, è preferibile dire fin da subito che Velázquez non ha solamente dipinto, ma ha letteralmente creato un quadro, in cui ha rappresentato se stesso — il pittore sulla destra è considerato uno dei suoi migliori autoritratti — in una sala dell’Escorial nell’atto di dipingere due personaggi — riflessi nello specchio alle sue spalle — cui la giovane Margherita si inchina, circondata da las meninas — cioè le damigelle d’onore — nani, e membri vari della corte regale.
Come Michel Foucault ricorda in Le damigelle d’onore [1], testo divenuto un punto di riferimento ineludibile per la comprensione dell’opera, la storiografia individua con certezza dõna Maria Augustina Sarmiente come dama e Nicola Pertusato, il buffone italiano.
La tela è affollata non solo di personaggi ma anche di cornici, che creano un vero e proprio labirinto per gli occhi. Cornice dello specchio, ma cornice è anche quella dell’individuo che in fondo alla stanza guarda nella nostra direzione fermo sulla porta da cui è limitato tanto da sembrare anch’egli uno dei molto quadri, prevalentemente a soggetto mitologico — come Atena che punisce Aracne di Rubens, o Apollo e Pan di Jordaens — di cui la stanza è riccamente ornata.
Quadri nel quadro — non dimentichiamoci della cornice dell’opera stessa, buco della serratura attraverso il quale stiamo spiando.
La presenza così forte delle cornici, dei limiti, della linea di confine anche fisica tra ciò appartiene alla finzione — cioè al quadro, ciò che è classicamente ingabbiato al solo ruolo di godimento retinico — pare quasi suggerirci che Velázquez volesse creare un’opera di meta-arte, una sorta di indagine sul confine tra realtà ed immagine, soggetto e ombra.
Ma questa definizione della tela non è esaustiva, non rende onore al politeismo valoriale e alla ricchezza contenutistica che si potrebbero attribuire all’opera: dalla rappresentazione della scena di corte al già citato autoritratto, passando per il ritratto classico — che pur è negato alla nostra vista — fin all’allegoria della pittura — il pittore ritrae se stesso nell’occupazione che gli è propria .
Il tutto reso grazie ad una vivida esaltazione dell’opera d’arte in tutti i suoi stadi: ciò che viene rappresentato, chi la rappresenta, la sua realizzazione, e l’opera terminata — simbolicamente presentata dai numerosi esemplari che arricchiscono le pareti —.
Una ricostruzione delle molte età del quadro che richiama subito alla mente, tanto per dirne uno, L’atelier del pittore di Courbet.
Tutte queste definizioni sono pertinenti, ma appaiono però un po’ riduttive.
Sono solo un aspetto del vero caleidoscopico protagonista dell’opera: il concetto filosofico di rappresentazione, la dialettica dell’immagine.
Parrebbe invisibile, ma non lo è: una selva di rimandi ne palesa la presenza assente (o l’assenza presente?): persino i regnanti non appaiono in scena se non che nel languido riflesso dello specchio, e solo grazie allo sguardo organizzatore del pittore-Velázquez che si presenta sulla tela come soggetto tra gli altri, oggetto tra gli oggetti.
Emblematica figura in una foresta di individui, egli è uno tra i tanti, non avanza pretese particolari, quasi dimentico del ruolo che gli compete di diritto.
Talvolta il silenzio è più rumoroso di una chiacchiera, ed è questo il caso.
Bisogna saper leggere fra le righe e svegliarci dall’acquiescenza con cui siamo soliti avvicinarci ad un’opera.
La scelta di porsi nel l’angolo della sala non obbedisce solo a motivi di organizzazioni spaziale ma è innanzitutto una dichiarazione di poetica, un messaggio di cui quello sguardo catalizzatore, forse malinconico, forse speranzoso si fa portatore implorandoci di andare oltre la superficie.
Tre stadi di realtà convivono pacificamente: la scena dipinta — l’infante Margherita circondata da vari compagni di corte —, l’immagine presente seppur invisibile — banalmente, il quadro da cui il pittore-Velázquez si scosta di qualche passo, infine il punto tanto reale quanto inavvertibile in cui riposano i regnanti, limite costitutivo e peculiarità dell’opera.
Chi stanno guardando tutti? La coppia dei regnanti forse? Ormai è chiaro, non giriamoci imbarazzati per guardare se c’è qualcuno dietro di noi: stanno tutti osservando proprio noi. Attraverso questo artificio ecco che lo spazio esterno, luogo di chi contempla l’opera, entra a far parte della tela.
Sorge quindi spontaneo interrogarsi sull’intelaiatura prospettica sottesa alla gestione dello spazio.
Foucault condivideva con Searle[2] la convinzione che la costruzione centrale ponesse il suo punto di proiezione di fronte allo specchio, che dovrebbe quindi riflettere non la coppia dei regnanti in carne e ossa che sta facendo il suo ingresso nella sala dell’Escorial ma quella che sta venendo fermata su una gigantesca tela dal pittore-personaggio!
Non solo i due filosofi sopra ricordati portano calcoli ineccepibili a sostegno della loro tesi, ma lo stesso Velázquez — quello vero, questa volta — regala a noi fruitori una vera e propria folla di indizi per individuare facilmente il punto di fuga. Dalle lampade sul soffitto ai cornicioni dei quadri, agli stipiti superiori delle finestre….tutti elementi che ci aiutano a svelare l’arcano: il quadro che Velázquez personaggio anonimo della tela sta dipingendo, raffigura la coppia reale.
Nello specchio vediamo quindi l’immagine dell’immagine, un’ombra, un fantasma forse, di certo l’illanguidito riflesso della tela a noi negata.
Ma la maestria di Velázquez va ben oltre.
Ancora un piccolo passo da percorrere insieme.
Se nello specchio, a rigor di punto di fuga, vediamo, il fantasma della tela, questo significa che la coppia reale non è necessariamente davanti alla piccola Margherita.
Mi volto in giro per la sala del Prado, mi guardo indietro ma la coppia reale non c’è. Sono rimasto solo io, spettatore. Sogno o son desto? Non può essere, ma il gioco prospettico di punti di fuga indica chiaramente che..stanno tutti guardando me!
Io? Lo spettatore? Ma da quando viene istituito un nesso tra l’immagine ed il suo fruitore?
Da sempre, anche se Las Meninas è uno dei primi quadri in cui lo spettatore viene redento, un vero e proprio atto d’amore nei confronti del nostro ruolo, reso ora lapalissiano.
Per la sua stessa ragion d’essere ogni singola immagine esiste solo nel momento in cui può essere ricreata dallo spettatore.
Merito immortale di Velázquez è stato quello di aver scritto nero su bianco che la realtà, la nostra realtà di caduchi e singoli individui, si fa quadro.
L’invito è a riflettere sul rapporto immagine- spettatore, o meglio, a comprendere una buona volta che l’immagine è per noi, ha bisogno della nostra partecipazione attiva ed individuale.
Percepire una figura, goderne la vista significa anche darle la vita.
Il critico d’arte, colui che umilmente si china e fa il suo ingresso nell’opera è pertanto simile al pittore: entrambi creano.
Ovvero: se Las meninas non potesse godere della nostra attenzione e partecipazione resterebbe solo un grandioso olio su tela, un soprammobile un po’ ingombrante, ma così non deve essere. Assumiamoci le nostre responsabilità e cogliamo lieti l’invito al viaggio, al percorso dello spettatore.
Noi guardiamo la scena dall’esterno dominandola —grazie allo specchio— dall’interno: i regnanti siamo noi, sebbene non dotati di corona o scettro: siamo noi spettatori a regnare sull’immagine, e sul l’immaginazione, rendendo immortale e sempre nuova una dei più generosi frutti dell’umano ingegno.
È un atto d’amore, dobbiamo ridare vita all’opera, conoscerla, così come lei ci sta chiedendo di fare.
[1] M. Foucault, Le parole e le cose: un’archeologia delle scienze umane (1966), trad. it. E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967.
[2] J. R. Searle, Las Meninas and the paradoxes of pictorial representation, Critical Inquiry VI, 1980
FOTO COPERTINA: Diego Velazquez, Famiglia di Filippo IV (Las Meninas), 1656, olio su tela, 318 x 276 cm, Museo del Prado, Madrid, particolare