Riuscire a comprendere la Napoli Sei e Settecentesta è un’operazione difficile e complessa. Riuscire poi a comprendere il valore dell’ambiente artistico che prosperava all’ombra dei grandi nomi della Storia dell’arte è ancora più arduo, soprattutto per un pubblico (quello odierno) continuamente rivolto alla contemplazione del “genio” (Leonardo, Raffaello, Caravaggio) o del “capolavoro”.
Mentre nella capitale partenopea Luca Giordano completava la sua strabiliante carriera con gli affreschi nella Certosa San Martino (impossibile non ricordare lo straordinario “Trionfo di Giuditta”) e alle grandi tele di stampo religioso si sostituivano i cicli di affreschi di gusto religioso-mitologico grazie anche alla fioritura in città e negli immediati dintorni di importanti palazzi nobiliari e reali, nuovi artisti (come Corrado Giaquinto, Gaspare Traversi, Aniello Falcone, Lorenzo De Caro e su tutti Francesco Solimena e Francesco De Mura) facevano il loro ingresso nel mondo artistico europeo imponendosi con l’esuberanza a volte stucchevole di quel Barocco Napoletano che si trascina per secoli.
In questa Napoli ricca, ricercata e moderna, per una élite che impazziva alla rime baciate di Metastasio e si abbandonava estatica alle arie più o meno facili di Scarlatti, di Piasiello o di Cimarosa, nasce un gioco capzioso, raffinato e snobistico che affascinerà per secoli i viaggiatori di tutta Europa: il presepio.
Per riuscire a spiegare cosa fosse il presepio nella Napoli settecentesca non basterebbe certo questo breve articolo e men che meno le mie scarse scarse capacità di scrittura. Le parole di Raffello Causa, straordinario storico dell’arte e soprintendente per Capodimonte (successore del grande Bruno Molajoli e maestro di Nicola Spinosa) certamente meglio descrivono la situazione partenopea:
L’occasione natalizia non rappresentava più che una mera contingenza cronologica per dare significato di ricorrenza a una manifestazione che per i suoi appassionati “si relegava” ciascun anno, appunto, al tempo del Natale, ma “si proseguiva” di anno in anno quasi senza interruzione, e richiedeva impegno, specializzazione e mezzi, profusi senza limitazioni di sorta. Questi per l’attività presepiale, i termini degli iniziati, di coloro che “dirigevano” la costruzione del presepe, e scene e fondali di “scogli”, e ruderi e grotte, e aggruppamenti di masse e figurine soliste, secondo l’ideale libretto di un microcosmo gioioso che doveva restituire l’immagine di una mitica Gerusalemme – la Gerusalemme della Scrittura calata nella realtà della vita quotidiana, nella cronaca della città e soprattutto del contado, del latifondo, delle nuove mode, delle curiosità d’oriente, “turqueries” e “chinoiseries” che davano colore alla routine giornaliera della capitale, e signori e popolo, e zingari e barboni, e glieli animali, quegli esotici apparsi per un ‘ora o per un giorno confusi alla mandrie e agli armamenti delle tenute di famiglia e al multiforme prolificare degli animali da cortile.
In poche parole Causa riesce a riunire tutti gli elementi fondamentali di un mondo (quello del presepe), dove confluiscono le maggiori figure di una complessa scena artistica e sociale come quella partenopea. Nella città che ospita il più antico teatro lirico d’europa, dove la tradizione musicale è una passione dirompente e onnipresente anche il presepe diviene un grande messa in scena dove la famiglia reale, i nobili e i borghesi illuminati, si occupano della direzione e cioè della regia di tante affollatissime scene.
Se dovessimo analizzare il mondo che sottostà alla creazione del presepe alla base di questa grande piramide troveremmo un piccolo gruppo di straordinari artisti e una fitta schiera di dotati artigiani e di collaboratori minori che si dividevano i vari campi di specializzazione: le teste delle figure o dei cosiddetti “pastori” (in creta o in legno), le manine, i piedi, il manichino di stoppa da atteggiare anno dopo anno secondo nuove pensate movenze, i vestitini in raso, pelle, panno, damasco e seta (rigorosamente proveniente da San Leucio) e poi i “finimenti”, e cioè l’innumerevole serie di accessori sempre di formato minimo e in scala, dall’orcio al pugnale, dal turbante alle gioie (ambito questo che coinvolgeva anche la grande scuola dell’oreficeria napoletana) e poi nature morte di ogni tipo (realizzate in cera citando i quadri fiamminghi che affluivano in città), alberi, cespugli, verzure e per concludere il frammento di scavo e il rudere archeologico onnipresenti nella Napoli ossessionata dal Gran Tour e della scoperta di Ercolano e Pompei.
A capo di questa grandiosa macchina produttiva c’era il ricco committente, un dilettante e collezionista che ricopriva il ruolo di direttore/regista che si avvaleva spesso dell’aiuto di altri più specificatamente preparati che potevano anche essere e in qualche caso furono architetti di successo: Muzio Nauclerio, Nicola Tagliacozzi Canale.
Durante l’intero anno questi esperti del settore lavoravano ad allestimenti spettacolari in una gara continua di architetti e committenti rivali per appagare l’occhio e il senso illuministico di catalogazione del reale che serpeggiava tra i nobili e i reali: il principe di Ischitella, che copriva di gemme e d’oro le figure del suo enorme presepe, il duca di Calà Ulloa, il duca di Corvino e anche i sovrani: Carlo che in compagnia dell’augustissima consorte Maria Amalia vi dedicava i suoi pochi pomeriggi liberi dagli impegni di stato e i suoi figli: Ferdinando prima di tutti, che si occupava personalmente del presepe nel nuovo Real Palazzo di Caserta. È insomma un divertimento alla moda che impegna i Reali e la corte e anche i più anonimi (ma certamente non meno abbienti) personaggi della nuova borghesia agiata: i fratelli Giorgio, i Ruggiero, i fratelli Terres, i Marotta e il Mosca, un divertimento ricercato e complesso che porta al successo e alla fama come a disastrosi tracolli economici.
Una grande esperienza mondana e composita che a differenza di quanto si può pensare ad una frettolosa e trascurabile analisi, non coinvolgeva gli ambienti ecclesiastici ma proprio quella ricca borghesia e ricchissima nobiltà partenopea (successivamente anche siciliana) che in linea con il gusto settecentesco dell’epoca, univano al tema centrale della Natività, una serie di temi aggiuntivi che poco hanno a che vedere con i Sacri Testi e ben più ampiamente spaziano negli allora nuovi campi di ricerca, “dalla etnografia al folclore: la taverna, la tarantella, la carovana dei magi, la folla dei provinciali secondo le diverse caratterizzazioni delle provincie d’origine, i saltimbanchi nostrani, il corteo di musici di colore venuti dall’Africa o dall’oriente; il comico, l’esotico, il descrittivo, la critica sociale, e sempre – e sopratutto – un compiaciuto senso di distacco rispetto alla classe più umile, un impietoso ma delizioso dileggio, quasi una costante marcatura caricaturale ai danni del cafone, l’uomo o la donna del contado, del feudo, che viene nella città, in un mondo nuovo così diverso e inatteso, e non sa nascondere la sua candida meraviglia innanzi ai tanti segni delle magnifiche sorti.” (R.Causa)
Purtroppo pochissime sono le documentazioni scritte che ci raccontano di questa straordinaria arte, ancora meno gli elementi a noi utili per poter attribuire con certezza le figurine delle collezioni pubbliche (vedasi quella della Certosa San Martino di Napoli o del Metropolitan di New York) e private (vedasi la collezione Leonetti o quella dei Castello) agli autori all’epoca attivi nella città partenopea. Così alcune possono essere attribuite alla mano di scultori illustri come Domenico e Antonio Vaccaro, Giuseppe Sanmartino, Bottiglieri, Celebrano personalità maggiori della scultura in grande, che dovettero plasmare o intagliare piccole teste o mani di pastori, ma molta incertezza circonda ancora la produzione minore, che attende ancora di essere identificata con sufficiente apparato documentario attraverso studi specifici e approfonditi. Così compaiono i nomi di Mosca, Gesualdo della Casa e Salvatore Cocchiara, Giuseppe de Luca e Giovan Battista Polidori, Aniello, Nicola Parisi, oltre ai tanti monogrammisti che incidevano le proprie iniziali sulla creta.
Negli anni ottanta alcuni importanti studi sono stati effettuati per portare ordine in un quadro artistico che fa impazzire Napoli per circa 150 anni (dal vicereame spagnolo alla pittura di Giacinto Gigante), famosi gli studi dei Catello, di Gennaro Borrelli, Mancini e Fittipaldi, che un certo ordine hanno portato in una complessa situazione, ma ancora molto c’è da fare per scoprire e fare nuove ipotesi e nuove attribuzioni nell’antica arte del presepio. Quando smetteremo di considerare queste arti regionali o ancora peggio “minori” ?
A presto, Buon Anno
Rò