La recente pubblicazione di Gaia Ravalli Il chiostrino dei Morti a Santa Maria Novella. Un laboratorio per la pittura fiorentina della metà del Trecento, edita nel 2015 da Edifir, è un importante e complesso studio su uno degli ambienti più affascinanti della pittura fiorentina del Trecento: il chiostrino dei Morti a Santa Maria Novella. Il libro, di facile lettura, si struttura in sette capitoli ognuno dei quali è dedicato all’analisi degli ambienti che andavano a creare questo luogo, uno dei cinque chiostri ancora superstiti nel complesso di Santa Maria Novella e la cui denominazione indica la sua originaria funzione cimiteriale. Esemplare il metodo con cui la studiosa conduce il proprio lavoro, non tralasciando nessuna informazione ed esaminando ogni raffigurazione superstite facendola dialogare con il contesto architettonico del chiostrino e con il più ampio panorama artistico della Firenze dell’epoca, aiutata in questo suo lavoro dalla documentazione d’archivio, quando ancora presente, e dalle fonti storiografiche che si dimostrano in alcuni casi utilissime per una ricostruzione degli spazi.
Nel secondo capitolo si analizza ampiamente la cappella dell’Annunciazione, un ambiente piccolo composto da un’unica campata voltata a crociera e che oggi, in seguito all’abbattimento di una parete, dà libero accesso al cortile del chiostro. La cappella si compone di poche scene: restano oggi solamente una Crocifissione e una Natività, e in modo particolare la prima presenta uno stato di conservazione quasi drammatico. È interessante la scelta adottata continuamente da Gaia Ravalli di inserire all’interno del testo anche riproduzioni storiche, che sono sicuramente d’aiuto per una maggiore lettura dell’opera e che testimoniano il triste processo di deterioramento di queste scene, in alcuni casi già fortemente presente anche in passato. In ogni caso si tratta di affreschi la cui importanza nel panorama culturale e figurativo fiorentino del Trecento non è da sottovalutare, come indica anche la letteratura critica che ruota attorno a queste opere, puntualmente analizzata dalla studiosa. Più volte inseriti nell’orbita di Andrea di Cione detto Orcagna con espliciti rimandi all’arte di Maso di Banco (dimostrando così la prima formazione di questo artista presso il grande allievo di Giotto), nella seconda metà del secolo scorso viene introdotto un nuovo nome all’interno di questo dibattito critico, quello del misterioso Stefano fiorentino. Secondo Antonino Caleca, infatti, le opere sarebbero il frutto della giovinezza di Stefano e questa tesi viene ripresa più volte da Angelo Tartuferi (per ultimo nella sua recensione a questo volume disponibile qui https://goo.gl/rrtJDn ) con l’unica differenza che, secondo quest’ultimo studioso, le opere sarebbero da collocare in una data prossima al 1349, come indicato dal documento pistoiese ormai ben noto agli studi e in cui Stefano è ricordato a Firenze «in chasa dei frati predicatori». In questa querelle attributiva la Ravalli si inserisce, seppur con un margine di dubbio, nella scia di Luciano Bellosi e Roberto Bartalini, che già avevano proposto di identificare negli affreschi la mano di Orcagna. La proposta è sostenuta da confronti, in alcuni casi davvero convincenti, tra le opere certe di Andrea di Cione e le parti meglio conservate degli affreschi della cappella, seppure questi ultimi presentino spesso un carattere ancora acerbo e idee prospettiche sperimentali che si potrebbero ben inserire nella giovinezza dell’artista, in particolare agli anni ‘30 del Trecento dopo la Maestà di Ruballa. Una datazione così alta è sostenuta dalla ricostruzione della Ravalli delle vicende che hanno interessato la cappella e che permetterebbero di fissare al 1347 un ante quem, per cui a tale data la costruzione e il ciclo decorativo erano già terminati; anche l’analisi della moda, tanto cara a Bellosi, confermerebbe quanto detto: infatti negli affreschi non sembrano trovarsi esempi del nuovo abbigliamento che si diffonde negli anni Quaranta del Trecento. Per quanto riguarda l’attribuzione affascinante a Stefano fiorentino sostenuta da Tartuferi mi sento di concordare però con la studiosa secondo cui il documento pistoiese risulta troppo avanzato: il linguaggio dell’artista che dipinge la cappella dell’Annunciazione dimostra continui rimandi a Giotto, Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi e Maso di Banco, a volte espliciti e non filtrati da un’analisi più attenta e ponderata come ci si aspetterebbe da un artista del calibro di Stefano e che invece ben si inseriscono nel primo percorso, ancora formativo, di un giovane artista.
Continuando l’analisi della decorazione, nel capitolo terzo è presa in esame la cappella di Sant’Antonio abate i cui affreschi però versano in un tale stato di degrado da risultare pressoché illeggibili, e infatti anche la studiosa ha difficoltà ad esprimersi con certezza sulla loro paternità. Anche qui troviamo una Crocifissione e scene tratte dalla vita di Sant’Antonio abate, queste ultime importanti dal punto di vista iconografico perché sono una delle prime testimonianze dell’interessamento al culto di questo santo a Firenze, iconografia oltretutto raramente presente in contesti domenicani. Per le pitture Gaia Ravalli propone, anche qui dubitativamente, il nome di Jacopo del Casentino, artista che si forma nell’ambiente giottesco, e anche qui l’esercizio attributivo della studiosa si basa su confronti minimi con opere su tavola dell’artista: confronti che però, per via dello stato conservativo, risultano davvero complicati da valutare. In ogni caso si tratta di una proposta importante in quanto non si conosce nulla sull’attività di frescante dell’artista, ricordata anche da Vasari, fatta eccezione per la prima decorazione di uno degli ambienti nella basilica di Santa Croce, oggetto di un saggio di Emanuele Zappasodi (disponibile qui https://goo.gl/jPNSkJ ).
Lo studio delle cappelle continua con quella di Sant’Anna, in cui si trovano brani del ciclo della vita della santa; ci troviamo, come nella cappella precedente, di fronte a un ciclo importante dal punto di vista iconografico in rapporto al contesto culturale della Firenze trecentesca: infatti la venerazione della santa ebbe un forte impulso dopo il 1343, anno della famosa rivolta cittadina che cacciò il Duca di Atene. Come per buona parte della critica, gli affreschi sono messi giustamente dalla Ravalli in relazione a Nardo di Cione, fratello del già citato Orcagna, anche se la studiosa fa notare che alcune figure mostrano un plasticismo più debole rispetto al solito linguaggio dell’artista. È interessante su questo punto l’ipotesi espressa della Ravalli, secondo cui questa cappella costituisce una prova dell’artista giovane nel complesso di Santa Maria Novella, in maniera analoga a quanto avvenne per il fratello maggiore nella cappella dell’Annunciazione.Il chiostrino dei Morti fu perciò un vero e proprio laboratorio in cui i due giovani artisti lavorarono, dando prova delle proprie capacità artistiche guadagnandosi così le commissioni maggiori all’interno della basilica di Santa Maria Novella: Andrea di Cione la cappella maggiore, di cui ci restano oggi solo pochi e importanti frammenti, e Nardo di Cione la cappella Strozzi, che può definirsi il suo capolavoro.
Le varie attribuzioni avanzate dalla studiosa, che si accettino o meno, dimostrano la capacità di estrapolare suggestioni anche da opere gravemente danneggiate e sono importanti perché aggiungono dei nuovi tasselli per lo studio di questi artisti. Credo però che non sia di secondaria importanza il merito di Gaia Ravalli di aver ricostruito e ridato voce a uno degli ambienti fiorentini più interessanti, di cui oggi purtroppo ci resta ben poco per poterlo interpretare, un contesto unitario che oggi appare fortemente frammentario e che si riesce a ricomporre attraverso queste pagine.
FOTO DI COPERTINA: Andrea di Cione, Natività, particolare, Cappella dell’annunciazione, Complesso di Santa Maria Novella, Firenze.