Scrivere una monografia su Simone Martini non deve essere certo un’impresa semplice, considerando la quantità di opere che ruotano attorno all’artista e il complesso problema della sua bottega. Il Simone Martini di Pierluigi Leone de Castris, la cui prima edizione risale al 2003, e oggetto di questo post, è sicuramente, nel suo insieme, un ottimo testo per ricomporre il quadro e avere un’immagine più chiara dell’artista senese: dunque la lettura è fortemente consigliata.
Mi ha lasciato, però, numerosi dubbi (soprattutto a livello metodologico), a iniziare dalla formazione dell’artista. Formazione avvenuta chiaramente nella bottega del più grande artista senese del momento, Duccio di Buoninsegna. Questo è un dato di fatto e sarebbe impossibile non notare la vicinanza tra le primissime opere di Simone con quelle del maestro, spesso in passato ritenute addirittura opere di Duccio stesso. E infatti questo non si nega. Però, nel testo di Leone de Castris si nota una svalutazione del ruolo di Duccio nei confronti del giovane Simone.
Certo, Simone rivolse i propri interessi a vari artisti ma leggendo il testo si ha l’impressione che l’autore rivolga maggiore attenzione a un altro artista, anch’egli senese: Memmo di Filippuccio. Collaboratore di Giotto nelle Storie di San Francesco (se si accetta l’ipotesi di Giovanni Previtali), l’”altro patriarca” della pittura moderna senese, come è definito da Leone de Castris in modo forse un po’ troppo enfatico, sembra ricoprire nella formazione di Simone un ruolo maggiore rispetto a Duccio. Sono poi i motivi per cui Simone Martini si allontanerebbe dalla bottega duccesca che non mi sembrano condivisibili: infatti Simone poteva ben conoscere sia la tecnica dell’affresco sia i modelli giotteschi indipendentemente da una formazione presso Memmo. Dico ciò senza escludere un primo contatto con Memmo, soprattutto essendo a conoscenza dei futuri legami che si creeranno con i Memmi e il ruolo fondamentale che essi avranno all’interno della bottega martiniana.
Questa ricostruzione di un’attività giovanile di Simone Martini è comunque necessaria in quanto la prima opera certa che si conosce dell’artista è la celebre Maestà affrescata in Palazzo Pubblico, documentata alla data del 1315. Questa splendida opera, per la sua qualità e le caratteristiche tecniche e stilistiche non può certamente essere l’opera di un giovane artista esordiente, ma si deve porre, quindi, come opera iniziale del periodo della maturità. Come già detto, i dati emersi dall’ultimo restauro hanno portato alla luce una “cesura” che si potrebbe porre ancor prima del 1315, data di completamento dell’affresco, e qualche tempo dopo l’inizio dei lavori, verosimilmente iniziati intorno al 1312-13. In questa lunga pausa dal lavoro senese Leone de Castris pone una prima tappa assisiate in cui si inseriscono le vetrate della cappella di San Martino, attribuite dall’autore appunto a Simone Martini sulla base di alcuni confronti stilistici con le parti più arcaiche della Maestà, quelle più vicine alle tipologie facciali duccesche per intenderci, come già in precedenza il Bologna aveva fatto; questione già dibattuta tra il Maestro di Figline e Giovanni di Bonino.
Grande frescante quindi, Simone Martini, ma anche pittore di numerosi polittici. In questa produzione lo vediamo inserirsi in una strada aperta già dal suo maestro Duccio; mi stupisce però non trovare questa continuità anche nei pensieri di Leone de Castris.
Parlando del periodo pisano, in riferimento al polittico dipinto per il convento domenicano di Santa Caterina, oggi conservato nel locale Museo di San Matteo, l’autore afferma che “ il pittore innova per la prima volta il modello di polittico imposto da Duccio e ne crea uno proprio, di fasto e dimensioni assai maggiori”. E ciò avviene all’indomani della morte dell’anziano Duccio, avvenuta nel 1318, “come se – cito Leone de Castris – la morte di Duccio avesse decretato la fine di una sorta di monopolio o di forte preminenza locale della bottega dell’anziano maestro”.
Il problema, secondo me non sorvolabile, sta nell’omettere un’opera fondamentale per lo sviluppo del polittico, e cioè il polittico n. 47, conservato nella Pinacoteca Nazionale di Siena. Il confronto infatti viene fatto con il polittico n. 28, opera arcaica in confronto al seguente e in cui effettivamente Duccio non ha ancora sviluppato le idee che si troveranno nel n.47 – e che vedono l’introduzione di una “galleria” intermedia tra il pannello e la cuspide, con all’interno i santi, in numero doppio rispetto a quello rappresentato nel singolo pannello. Gli elementi principali del polittico rimangono ancora cinque, ma questa innovazione è fondamentale per capire la complessità che si troverà nelle opere di Simone Martini, e comprendere da dove è partita l’ideazione: da Duccio. Con questo confronto si può inserire Simone, come è giusto che sia, all’interno di un percorso evolutivo del polittico senese e dimostrazione ulteriore della formazione dell’artista all’interno della bottega duccesca.
Nel corso del terzo decennio Simone svolse a Siena diverse opere per il Comune, tra cui un polittico cui alludono le fonti e due documenti del 1326 e del 1327, che sembra essere stato identificato con il complesso diviso tra New York, Madrid e Los Angeles. Stando alle fonti documentarie, il polittico nel 1448 veniva fornito per volontà del Comune di una nuova cornice e di predelle, commissionate al noto pittore senese Sano di Pietro. E il candidato migliore per questa ricostruzione affascinante del polittico (peccato manchi un grafico nel testo per spiegare tutto) sembra essere proprio questo complesso smembrato. Per quanto riguarda le predelle, queste dovevano rifarsi agli affreschi, oggi perduti, realizzati sulla facciata principale dell’Ospedale della Scala, con Storie della Vergine, come espressamente richiesto dal Comune. Queste predelle in base all’iconografia sembrano essere state individuate nella Nascita, Presentazione al Tempio, Assunzione, Matrimonio e Ritorno della Vergine nella casa paterna, divisi fra il Museum of Art della University of Michigan ad Ann Arbor, la Pinacoteca Vaticana e il Lindenau Museum di Altenburg.
Questa introduzione era indispensabile per collegarmi agli affreschi perduti effettuati da Simone Martini, e trattati da Leone de Castris nell’ultima parte della monografia. Questi, come appena detto, erano posti sulla facciata principale dell’Ospedale della Scala. Dalle formelle di Sano di Pietro si può chiaramente effettuare una lettura iconografica dei perduti affreschi: in particolare le scene che dovrebbero ispirarsi alle perdute opere martiniane sono lo Sposalizio della Vergine e il Ritorno della Vergine nella casa paterna.
Una lettura strettamente iconografica è, a mio parere, l’unica possibile e corretta in questo caso. Mi sorprende invece vedere come Leone de Castris tenti, partendo da queste predelle che come abbiamo detto sono state effettuate nel 1448, una lettura stilistica sulla cui base datare le opere perdute di Simone Martini! Mi chiedo, quindi, quanto siano attendibili, anche da un punto di vista metodologico, dei confronti stilistici impossibili.
Un argomento complesso quando si affronta Simone Martini è sicuramente quello della sua bottega, in cui risalta al suo fianco, Lippo Memmi, figlio di Memmo di Filippuccio a cui abbiamo accennato per la formazione di Simone Martini. L’argomento è sicuramente uno dei più complessi e di difficile risoluzione nell’arte del Trecento: è infatti difficile mettere a fuoco le varie personalità di Lippo e Tederigo, come anche quella di Donato Martini, fratello del nostro Simone, insieme a quelle di altri numerosi artisti che a lui si rifanno e le cui opere sono oggetto di dibattiti. Ad aggravare questa complessità si aggiunge poi la mancanza di opere documentate di Donato e di Tederigo Memmi, fratello di Lippo.
Mi rendo conto che l’argomento trattato è spinoso e non si può di certo concludere con semplicità, ma è proprio in seguito alla lettura di questa parte del testo, dedicata appunto allo sviluppo della bottega martiniana, che i miei dubbi sulla metodologia ricostruttiva di Leone de Castris si intensificano. C’è una tendenza da parte dell’autore a vedere nella figura di Tederigo il maggior collaboratore di Simone Martini, il vero “compagno di Simone” – per usare l’espressione cara a Previtali – definito il vero erede dell’artista senese, alle cui opere collaborerebbe fin dagli affreschi assisiati. Tederigo diventa così una figura presente in molte opere accanto al fratello (ad esempio nella Madonna dei Raccomandati di Orvieto, firmata da Lippo), ma ancor di più, in questa ricostruzione offerta dall’autore, in Tederigo si devono identificare tutti gli anonimi maestri ruotanti intorno alla bottega martiniana, e infine anche la figura del leggendario Barna.
Ecco, è proprio da questa ricostruzione, dal mio punto di vista un po’ forzata, che nascono i miei dubbi, dato che di Tederigo Memmi non esistono opere certe. Mi chiedo: come è possibile racchiudere sotto un’unica personalità, di cui nulla è arrivato fino a noi, l’insieme delle opere che ruotano attorno alla bottega di Simone Martini?
Soprattutto sulla figura di Barna la critica si è divisa tra chi trasferisce l’intero corpus a Lippo Memmi e chi a Tederico, inserendosi quindi Leone de Castris tra questi ultimi. Credo però che in assenza di opere certe con cui fare dei confronti stilistici, sia più cauto parlare più genericamente di famiglia Memmi, questa certamente documentata a San Gimignano dai tempi di Memmo di Filippuccio, lasciando però l’interrogativo sul riconoscimento dei singoli membri.
Questa ossessione di vedere la mano di Tederigo in tutte queste opere porta automaticamente a una svalutazione di Lippo Memmi, del quale invece si conservano opere firmate. Basti pensare, anzi, che è quest’ultimo che firmerà, insieme a Simone Martini, l’Annunciazione commissionata per l’altare di Sant’Anselmo e datata 1333. Proprio il fatto che sia Lippo, e non Tederigo, a collaborare con Simone per una committenza tanto importante, testimonia inequivocabilmente che la seconda figura principale all’interno della bottega martiniana fosse proprio Lippo Memmi.
A proposito dell’Annunciazione, Leone de Castris fa un discorso molto arguto inerente la spazialità. È stato più volte affermato dagli studiosi che in quest’opera l’artista arriva ad annullare lo spazio. È di certo innegabile, confrontando l’opera con la precedente Pala del Beato Agostino Novello, oppure anche con le scene della predella della pala del San Ludovico di Tolosa, che in queste si nota un maggiore interesse per lo spazio, una concezione che possiamo definire giottesca e in cui gli ambienti diventano abitabili.
Tutto questo a un primo sguardo non si ha nell’Annunciazione. Qui, però, la concezione della spazialità è diversa: il fondo oro e l’accentuato linearismo tendono a creare una certa bidimensionalità, ma la sensazione di profondità è comunque data da piccoli ma importanti espedienti. In primis, il vaso con i fiori posto al centro della scena (un’idea che è già presente nel mosaico del Duomo di Pisa), quasi a dividere le due figure, ha più che una funzione prettamente decorativa, il compito di ricercare la spazialità all’interno dell’opera, con i fiori che indagano la profondità dello spazio. Ancora, notiamo che l’angelo annunciante e la Vergine non sono posti sullo stesso piano: la Vergine, infatti, è in posizione più arretrata e ad accentuare questa profondità sono le parole dell’Angelo che si dirigono in diagonale verso Maria. E questa secondo me è un’idea che dimostra la straordinaria inventiva compositiva di Simone Martini.
FOTO DI COPERTINA: Simone Martini e Lippo Memmi, Annunciazione, pannello centrale, particolare, Firenze, Galleria degli Uffizi.