Da quando ho messo timidamente piede nel mondo dell’università, prima, e del patrimonio storico artistico, poi, ho capito che la parola d’ordine per qualsiasi attività, idea, scelta è: CRISI. Come un mantra ad ogni proposta le amministrazioni locali, comunali, diocesane, provinciali, regionali e nazionali rispondono con la sola parola conosciuta, abbellita, di tanto in tanto (quasi a favorirne la digestione), da qualche aggiunta di rito:
“Bello, ma c’è crisi”,
“Un progetto straordinario, dovremmo farlo, dico davvero! ma c’è crisi”,
“Non mi convince molto, ma in ogni caso non si potrebbe fare. Sà meglio di me.. C’è crisi”.
Il patrimonio culturale già soffriva prima, quando la crisi non mordeva, ma ora che gli stati faticano a far quadrare i conti (come prima del resto) tutto è rimandato a tempi migliori o langue decomposto in attesa del salvifico intervento dei privati (che in Italia non ricordano certo Mecenate e non fanno nulla per nulla). In questa situazione alcuni musei chiudono i battenti, altri lanciano ultimi inascoltati e lancinanti appelli prima di accasciarsi al suolo, le chiese crollano, le biblioteche annegano, gli enti lirici e sinfonici si contano vicendevolmente aggiornando di mese in mese la lista dei sopravvissuti, i teatri (attaccati al respiratore) riducono le stagioni, le compagnie di danza e le Orchestre lottano per arrivare non alla fine della stagione, ma al più semplice diritto d’esistenza. Il giardino d’Europa, la bella Italia, il delizioso paradiso europeo, più che prezioso Hortus sembra un cimitero. Bellissimo sì, ma pur sempre putrescente riunione di ambiziosi cadaveri. Da qui, il mondo culturale della penisola sogna più ricchi luoghi, dove la cultura (in tutte le sue forme) respira, non certo agiatamente, ma con maggiore facilità. Un respiro che crea occupazione, ricaduta economica, innalzamento della qualità della vita e arricchimento personale dei singoli contribuenti. Un respiro, quello italiano, mozzato da polmoni (musei, teatri, sale da concerto, spazi ricreativi) stanchi e asfittici, propri di un corpo affamato, disidratato e sottopeso talmente abituato al suo stato che si stupisce quando vede il proprio vicino respirare con forza e vigore, quasi non sapesse che, se ben nutrito, potrebbe fare lo stesso, se non meglio.
E così la Svizzera Italiana, il brulicante Ticino, con maggior precisione la città di Lugano, ancora una volta mostra alla nazione accumunata dal suo stesso idioma (la Res-publica Italiana), come si “respira”, e lo fa inaugurando in un sol colpo una sala concertistica e teatrale, un museo, un teatro studio, diverse sale multiuso, un parco e una piazza. 40.000 metri quadrati totali, di cui 2500 dedicati al nascente MASI (Museo d’Arte della Svizzera Italiana), 800 invece destinati ad una sala da 986 posti (suddivisi tra platea e balconata) con una fossa orchestrale per 60/70 componenti, un Boccascena lungo 16 metri, alto 11 e un palcoscenico profondo 16 e largo 25 metri. Il tutto affiancato a 5000 mq di parco pubblico, altri 2500 di piazza pavimentata (la più grande della città) e 390 di hall coperta di libero passaggio. Un progetto dalle enormi dimensioni e dalla non certo contenuta spesa (250 milioni di franchi) affidato, dopo un concorso architettonico internazionale in due fasi, all’architetto Ivano Gianola, con la collaborazione della Muller BBM di Monaco di Baviera azienda leader nel campo dell’ingegneria acustica.
Nel 1999 la comunità lacustre scelse di recuperare le rovine dell’ex Gran Hotel Palace e dell’ex convento francescano annesso alla Chiesa di Santa Maria degli Angioli (sede di un memorabile intervento pittorico di Bernardino Luini), realizzando un centro culturale destinato a diventare il fulcro del futuro Polo Culturale cittadino. Ricalcando la tradizione svizzero tedesca delle Kunsthaus o Kunsthalle, letteralmente “la casa dell’arte o delle arti”, e il successo di centri come il KKL di Lucerna, il Consiglio comunale approvò nel 2004 la costruzione di un grande centro che potesse raggruppare in un’unica adeguata sede le principali attività culturali della già viva città elvetica.
Dopo 10 anni di cantiere, il 12 settembre scorso l’amministrazione civica ha restituito ai cittadini uno spazio di importanza storico-artistica, naturale-ambientale, economico-commerciale, primo tassello di un grande piano di riorganizzazione spaziale e funzionale del territorio e di una riconversione in chiave turistica dell’intera regione. Un nuovo centro culturale in una confederazione che aveva tagliato fuori la regione italiana dal fruttifico mondo artistico, escludendola dal ristretto e ricercatissimo percorso culturale delle sedi museali e teatrali svizzere (Berna, Basilea, Zurigo). Il Ticino si riprende lo spazio che merita con la stagione LuganoinScena frutto della decisa e luminosa direzione di Carmelo Rifici, che spazia dal teatro di prosa a quello contemporaneo, dalla grande danza nazionale e internazionale alla musica, ospitando i massimi interpreti e i maestri della scena teatrale, il tutto circondato dalla stagione concertistica di LuganoMusica, diretta da Etienne Reymond, che si presenta coma una delle più ben fatte a carattere europeo.
Ma se nel teatro e nella musica il LAC (questo il nome scelto per il centro luganese) spicca fin dall’inaugurazione, in quello museale si arrampica sugli specchi con uno stridore fastidioso, specie nello “sbrodolante” mondo degli eventi mondani collegati ai vernissage.
A incupire la lodevole creazione luganese non è certo lo Spazio-1 della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, (rimasto fisicamente separato dal complesso e situato a pochi passi dallo stesso) che propone il progetto “Teatro di Mnemosine. Giulio Paolini d’apres Watteau”[1], ma la prima esposizione temporanea del MASI a cura di Marco Franciolli (direttore del Museo) e Giudo Comis: “Orizzonte Nord-Sud. Protagonisti dell’arte europea ai due versanti delle Alpi 1840-1960”.
Il comunicato stampa la descrive così: “un viaggio attraverso le opere dei protagonisti dell’arte a nord del Gottardo e nel “paese dove fioriscono i limoni”: da Böcklin a DeChirico, da Hodler a Wildt, da Anker a Morandi, da Segantini a Medardo Rosso per giungere, attraverso esponenti del dadaismo e futurismo, a due maestri del Novecento come Fontana e Giacometti”. Un viaggio, dunque, (tremendamente vicino alle formula da.. a..) come quelli a cui i’industrioso mostrificio nostrano ci ha abituato. Eppure da un centro come quello svizzero ci si sarebbe aspettato molto di più che una mostra che riassume in una specie di manuale alcuni capitoli dell’arte contemporanea di area tedesca e italiana.
Franciolli, direttore e curatore, lo ripete più volte all’interno del corposo (400 pagine) e costoso (42,00 euro) catalogo bilingue della mostra (edito non proprio magnificamente da Skira) : “Quale punto di avvio ci siamo chiesti: quali modelli, linguaggi, temi, miti, concorrono a definire dove siamo e chi siamo in termini di identità culturale?” Come è giusto che sia, quindi, la mostra inaugurale di un museo regionale mette in risalto la ricerca della propria identità, cercando di evidenziare come Lugano, e più generalmente il Canton Ticino, siano “punti di osservazione privilegiati sulla realtà artistica e culturale italiana e Svizzera, del meridione e del settentrione d’Europa”, ma, con mio grande stupore, non lo fa ricorrendo alle proprie ricche collezioni, ma attraverso prestiti internazionali con i più importanti musei e fondazioni europei. Il Ticino terra di confine e di dialogo, storicamente luogo di transito, “contraddistinto dalla presenza di elementi culturali di diversa origine” è relegato ad un’altra esposizione, più contenuta e dimessa, ospitata a Palazzo Reali (storica sede del Museo) e complementare, se non salvifica, a “Orizzonte Nord-Sud” dal titolo: “In Ticino. Presenze d’arte nella Svizzera Italiana. 1840-1960” che si propone di indagare negli stessi anni la realtà artistica del cantone italiano in un periodo contraddistinto da una importante storia di emigrazione e immigrazione di artisti.
“Orizzonti Nord-Sud”, quindi, espone in due piani ciò che accade al di là e al di qua delle Alpi escludendo dal percorso i veri protagonisti: il cantone e la sua capacità di far proprie le diverse esperienze. Obiettivo della mostra è per Franciolli “quello di sottolineare, attraverso le esperienze di alcuni protagonisti, il flusso delle idee, i modelli e i linguaggi, le affinità e le differenze” tra le due aree geografiche e culturali che circondano la regione, lasciando al pubblico la più grande libertà interpretativa, grazie anche al non rigoroso ordinamento cronologico. Il risultato è però una mostra debole, non chiara per un pubblico costretto a vagare senza una vera guida tra enormi sale dove le opere volano in un allestimento frettoloso e poco curato. Un agglomerato di capolavori (alcuni di straordinaria qualità) che solo a volte riesce a mettere in dialogo artisti nati e cresciuti in contesti culturali e geografici diversi e davvero raramente sottolinea con chiarezza leganti affinità (forse l’unico confronto davvero riuscito è quello tra Böcklin e DeChirico sul mito classico). Il MASI inaugura la sua stagione espositiva (che mi auguro lunga e prosperosa) con un’occasione sprecata, ampliando e rendendo protagonista ciò che sarebbe stato il giusto ampio contorno di una contestualizzazione della collezione permanete in attesa del suo allestimento definitivo nel livello -2. Si dipana così, attraverso le 150 opere, un percorso che lascia dubbiosi e insoddisfatti, con troppi quesiti e troppo poche risposte, a metà tra un personalissimo riassunto storico artistico dei due curatori e una strizzata d’occhio ad un pubblico alla continua ricerca dei soliti noti, tra i quali spicca però (grazie anche all’ultima spettacolare sala espositiva aperta sul lago) la figura fragile e possente dell’Homme qui marche II, gesso della matrice originale della Fondazione Giacometti che conclude l’intero percorso.
A sollevare una situazione poco lodevole ci pensa però l’ultima mostra del complesso, ospitata negli spazi dal 27 febbraio 2016 dedicati alla Collezione permanente: “Anthony McCall. Solid Light Works[2]” a cura della precisissima e instancabile Bettina della Casa, autrice del piccolo ma prezioso catalogo edito, con maggior cura questa volta, da Skira.
Il LAC è il polmone culturale della città di Lugano e dell’intero Ticino. È un polmone che ha già progettato 6 esposizioni fino al gennaio 2017. È un polmone nuovo e giovane che respira dando ossigeno ad una città già viva ma non certo esente dalla crisi (comunque ben lontana dalla sua versione italica). È un polmone che respirando cerca di ricollocare la città e la regione in un circuito turistico e museale internazionale. Mentre il corpo dell’Italia giace in un letto d’ospedale, attaccato al respiratore, elogiandosi dei suoi fastosi anni passati, quello ben più anziano del suo compagno di stanza, la svizzera italiana, respira autonomamente e si prepara alle dimissioni. Eppure anche al LAC gli scandali non sono mancati: il marmo sbagliato delle facciate, lo sfruttamento dei lavoratori, le vertenze civili e penali ancora aperte, le spese eccessive, i costi di manutenzione non calcolati, le accuse di caporalato, gli attacchi dalla Lega del Ticino a causa di interessi privati (l’impresa edile BILSA dei Bignasca, famiglia del principale esponente del partito, aveva un contratto milionario per la realizzazione di alcuni cantieri nel Lac, poi rescisso dalla azienda appaltatrice, la spagnola Comsa). Nonostante tutto l’amministrazione civica luganese ha deciso di credere nel progetto, mettendo definitivamente fine alla spregevole débâcle secondo cui con la cultura non si mangia.
L’esempio pregevole del LAC è subito dopo il confine, a pochi chilometri dalla città di Milano. Che sia la volta buona che le italiche genti, pungolati dai vicini, decidano di curare i propri polmoni con nuovi finanziamenti e investimenti? Magari iniziando a rispondere per una volta: “Un progetto straordinario, dovremmo farlo, dico davvero! NONOSTANTE la crisi!”
A presto
Rò
[1] ciclo di sei opere di Paolini dedicate alla dea della memoria e realizzate nell’arco di nove anni, che vengono per la prima volta integralmente riunite a Lugano in questa occasione con la personale supervisione dell’artista (che ringrazio per la sua simpatica compagnia e illuminante guida)
[2] I Solid Light Works di Anthony McCall, appositamente progettati per la sede luganese, sono installazioni luminose per cui la conditio sine qua non della loro esistenza è che siano ambientate in spazi bui, dove l’osservatore è immerso nell’oscurità come al cinema, con la differenza che è libero di muoversi e di partecipare attivamente all’opera. Nell’oscurità le funzioni umane di ricezione degli stimoli subiscono un naturale rallentamento e il visitatore viene totalmente assorbito dallo spazio dell’opera creando una “totalità” spaziale in cui ogni scultura si fonde con le altre, così come ogni visitatore interagisce con gli altri. Sono i singoli soggetti, attraverso il loro corpo e i loro movimenti, a dettare il tempo dell’opera che accade nell’istante presente e che – utilizzando sofisticati calcoli matematici applicati alla tecnologia digitale – crea la magia e la fascinazione delle evanescenze di luce percepite.
FOTO COPERTINA: LAC Lugano Arte Cultura. Vista della piazza dalla Hall. © LAC 2015 – Foto Studio Pagi.