Chi di voi conosce le “paperoles”, che attenzione sono ben differenti dai papier collè? Posso dirvi sicuramente che non sono una cosa che si fuma (come credeva un mio caro amico che considera la Storia dell’arte una passatempo per vecchie signore). Se avete un week-end libero e avete voglia di fare un viaggio, e di scoprire cosa siano i paperoles, la vostra meta è nuovamente (vedi POST precedente) il Piemonte, in particolare quella che i piemontesi stessi chiamano la piccola Parigi, Torino.
Alla straordinaria Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli progettata divinamente da Renzo Piano, una mostra piccola ma davvero interessante ci presenta il mondo delle creazioni di carta degli reliquiari devozionali realizzati dalle monache di clausura tra fine Settecento e inizio Ottocento.
Queste composizioni avevano principalmente un utilizzo domestico o conventuale. La loro realizzazione in teoria semplice (bastava arrotolare piccole strisce di carta dorata che affiancate davano motivi floreali) si evolve, nell’ambiente post tridentino, in composizioni la cui realizzazione poteva durare mesi e necessitavano di una straordinaria pazienza che (a mio dire) solo un ordine religioso può possedere.
Fortemente ispirate dal mondo della filigrana, queste composizioni in carta arrotolata con temi floreali, venivano arricchite da perle, conchiglie e naturalmente, al centro della composizione, da piccoli pezzi di reliquie dei santi più disparati.
In Spagna, Italia e Austria (i paesi dove la controriforma è ben radicata in una società fermamente cattolica romana) i “paperoles” diventano una vera e propria mania. Realizzati prima come oggetti devozionali per conventi o congregazioni religiose (collegato a questa destinazione il significato stesso della fattura di questi capolavori in miniatura cioè: la dedizione al lavoro come straordinaria preghiera al Signore), successivamente vengono donati ai benefattori per ornare cappelle private o tombe di famiglia.
A Torino sono presenti circa 150 pezzi (alcuni davvero eccezionali) provenienti dalla collezione privata di un raccoglitore che ha deciso di rimanere anonimo e dalla raccolta personale della fotografa americana Nan Goldin che ha anche realizzato alcuni pregevoli scatti per la mostra.
L’allestimento è sobrio e discreto. Le opere esposte nella prima sala della mostra, appese su una parete rossa come fossero posizionate nella casa dello stesso collezionista, una vicino all’altra, danno un effetto di calma domestica e voglia maniacale di possedere del collezionista, come se non fossero mai uscite dal loro luogo di conservazione.
Davvero mirevole l’idea delle curatrici di consegnare al momento dell’ingresso, a tutti i visitatori, una lente di ingrandimento e una piccola pila a led per avvicinarsi alle opere il più possibile e illuminandole, osservare anche piccolissimi dettagli che denotano nuovamente la bellezza sconosciuta di queste opere.
Il catalogo edito da Corraini lascia a desiderare. Ottime riproduzioni fotografiche, ottima qualità di stampa e bella impaginazione (cosa che non stupisce per un editore come Corraini) ma colpisce la presenza di un unico saggio introduttivo abbastanza “scarno” per il mio modo di vedere e un prezzo davvero esagerato: 49 euro.
La mostra si sviluppa per tre sale, con un percorso di visita breve ma intenso, non stancando il visitatore, che volentieri sale nello “scrigno” (vedi foto in apertura) progettato da Piano per ospitare la collezione permanente della Pinacoteca Agnelli, della quale però, vi parlerò in un prossimo articolo.
A presto
Rò