A cosa serve un catalogo di una esposizione temporanea? Solitamente a pubblicare l’elenco ordinato e sistematico di una o più serie di opere, con le indicazioni ad esse relative, compilato per determinati fini di studio, affiancato da uno o più saggi atti a giustificare determinate scelte di curatela, delucidare l’attuale situazione degli studi e a fornire (al lettore specialistico e non) i risultati che la imprescindibile ricerca ha conseguito.
Ma se non esiste alcun fine di studio e l’antecedente ricerca giace nell’ignoto, a quale compito assurge il catalogo? A cosa serve un costoso volume di 192 pagine su carta patinata dall’alta grammatura?
Seppur impeccabilmente impaginato, arricchito da una campagna fotografica certamente ben fatta, il catalogo edito da Skira della mostra “Paul Signac. Riflessi sull’acqua“, in corso fino al 8 gennaio 2017 presso il Museo d’Arte della Svizzera Italiana di Lugano, pone inevitabilmente questa dolorosa domanda e illumina con estrema chiarezza un’opaca mostra.
Una congerie di oltre 140 opere (tutte di provenienza privata) sono riunite sotto la curatela di Marina Ferretti Bocquillon, autrice anche dell’unico agilissimo saggio in catalogo, in 6 sezioni tematiche che, afferma il comunicato stampa, rivelano “le molteplici sfaccettature di un uomo innamorato del colore” esponendo “le diverse fasi dell’evoluzione artistica di Paul Signac: dai primi dipinti impressionisti fino agli ultimi acquerelli della serie dei Ports de France, passando per gli anni eroici del neoimpressionismo, il fulgore di Saint-Tropez, le immagini scintillanti di Venezia, Rotterdam e Costantinopoli”.
Una mostra monografica che attraverso pochi prestiti esterni alla già citata collezione d’arte privata, presente quasi nella sua totalità, cerca di realizzare una esaustiva panoramica sull’evoluzione artistica del pittore. Un progetto troppo complesso da raggiungere utilizzando un numero esiguo di dipinti (per altro non tra i migliori del nostro) e una quantità davvero sconcertante di disegni, incisioni e sopratutto acquerelli che il pittore continua instancabilmente a produrre nell’ultimo periodo della sua vita. La mostra infatti, tralasciando forse troppo le composizioni su tela del primo periodo, mette bene in luce lo stretto rapporto dell’artista con la tecnica a base acquosa, particolarmente congeniale per raffigurare, in una lunga serie di album rilegati in pelle, “40 porti della Manica, 40 porti dell’Oceano” e 20 porti del Mediterraneo, individuati in accordo con Gaston Lévy mecenate della corposa impresa. Il grandioso reportage, realizzato tra il 1929 e il 31, occupa buona parte dell’ultima sezione della mostra, intitolata Signac acquerellista nomade, apertasi pochi metri prima con le composizioni in cui l’artista, intorno al 1910 circa, inizia ad utilizzare la firma “Signac acquerellista”.
Già all’inizio del percorso espositivo, dopo due brevissime sezioni dedicate alla teoria del colore del movimento neoimpressionista e alla formazione del maestro parigino, la curatrice ha scelto, forse obbligata dalle opere in collezione e dal pacchetto preconfezionato, di evidenziare il graduale avvicinamento all’acquerello durante i lunghi soggiorni a Saint Tropez, dopo l’improvvisa e prematura morte di Seurat, nel 1891. Signac si allontana sempre più dal movimento e ritenendo la mescolanza ottica praticata da Seurat la strada sbagliata per raggiungere la purezza cromatica da sempre ambita, decide di abbandonare il metodo del suo mentore. L’acquerello gli permette, a suo dire, di sperimentare e di tornare nuovamente alla tecnica impressionista en plein air, in sostituzione a quella, prettamente scientifica, di divisione dei toni, praticata nel silenzio e nel tempo dilatato del suo atelier. La sua produzione si appiattisce e la mostra, a differenza di quello che la curatrice sembra più volte ribadire nei comunicati stampa e nel catalogo, prosegue fino al già citato finale in un monotono susseguirsi di disegni e visioni marine, “come se si avesse di fronte un talento sempre più incerto, spaesato, ormai vinto da una modernità che non sa comprendere” (M. Cecchetti, Avvenire, 9 settembre 2016).
Il gioco sgarbiano dei riflessi sull’acqua presente nel titolo è un delizioso specchietto per allodole che nella nuova sede lacustre del museo funziona, all’inizio, particolarmente bene. Ma il gioco dura poco e anche l’occhio meno esperto si rende conto di come nella mostra preconfezionata (essendo questa la seconda tappa dopo la prima alla Fondazione Ermitage di Losanna) poco sia lo spessore e poca la volontà di ricerca, nonostante sia la prima esposizione pubblica per l’ampia collezione privata prestatrice. Una mancanza che si rende ancora più evidente se paragonata alle precedenti monografiche dedicate al maestro, realizzate con una ampia scelta di prestiti, confluiti in un progetto pensato e volenteroso di mostrare cosa di nuovo vi era negli studi dedicati all’autore. Il tutto confluisce in un catalogo pressoché inutile, con una bibliografia selezionata (forse troppo), un saggio iniziale troppo esiguo e un insieme di opere in cui è assai difficile capire cosa è realmente esposto da cosa invece non è mai pervenuto nella sede ticinese. Delude infine il LAC, con un allestimento privo di brio (per lo scrivente assurda la scelta di porre il laboratorio didattico nell’ultima sala affacciata sul lago), ma sopratutto dopo la volontà, a circa un anno dalla fastosa inaugurazione del 2015, di rivolgersi al mercato museale delle mostre prêt-à-porter, tradendo quelle promesse di originalità e ricerca su cui così tanto aveva puntato.
A presto
Rò
IN COPERTINA: Paul Signac, Saint-Tropez. Fontaine des Lices, 1895, olio su tela, 65×81 cm, Collezione privata.