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Ferdinando, Antonello e il confronto.

Cosa rende una mostra, una “bella” mostra? Per molti era una “bella” mostra l’inquietante elenco telefonico risultato di una profonda e dolorosa “lobotomia” intitolato “Raffaello verso Picasso” (il capolavoro del populista Marco Goldin), ospitato prima nella vicentina Basilica Palladiana e poi a Verona presso il Palazzo della Gran Guardia. Credo allora sia necessario cambiare la domanda per non incorrere in risposte così destabilizzanti e avvilenti.

Cosa rende una mostra, una mostra di qualità?  La ricerca e lo studio, sono l’unica risposta. Due parole chiave che, come solide fondamenta, stanno alla base della mostra dedicata ad Antonello da Messina curata da Ferdinando Bologna e Federico De Melis (con la collaborazione di Maria Calì e Simone Facchinetti) ed ospitata al Mart fino al 12 gennaio 2014.

Ricerca, che porta i curatori a realizzare un indagine “articolata e uno sguardo originale sulla figura del grande pittore del Quattrocento” e studio, che mette in luce “gli intrecci storico-artistici e le controversie ancora aperte” di un autore e di un secolo così ricchi e complessi.

Queste due parole, così spesso dimenticate nel campo delle esposizioni artistiche, non sono ancora sufficienti per giustificare un’esposizione da molti ritenuta inutile e dannosa.

Il 21 agosto 2013, Tomaso Montanari su “Il Fatto Quotidiano” in un articolo dal titolo: “Lo stato dell’Arte al luna park” dedicato al sempre più amato confronto tra arte contemporanea e arte antica, che degenera nei folli progetti renziani di Michelangelo e Pollock a confronto nel salone dei Cinquecento, cosi scrive riguardo la mostra roveretana di Antonello da Messina:

“C’è poco da fare gli schizzinosi: la formuletta, ancorché ribaltata, sta per espugnare il salotto buono. I giornali sono già ingombrati dalla pubblicità di “Antonello da Messina”, che apre il 4 ottobre al Mart di Rovereto (coproduzione della non schizzinosa Electa). Ma cosa c’entra il più serio dei musei d’arte contemporanea italiani con uno dei più grandi pittori del Rinascimento?”

Domanda difficile per un contesto complesso. Ammetto che la notizia della mostra lasciò perplesso e particolarmente dubbioso anche chi scrive. Credevo che anche il Mart di Rovereto fosse caduto nell’assurdo e triste gioco delle mostre blokbuster.  Avevo fatto mia la chiusura del sopracitato articolo di Montanari: “l’Antonello in vacanza sulle Dolomiti è un ammiccamento opportunista al peggio dello “spirito del tempo”, per di più travestito da pensosa raffinatezza: un cedimento culturale grave, che toglie credibilità ai pochi che ancora la potrebbero avere e legittima il peggio del mostrificio corrente”.

Antonello da Messina, allestimento

Antonello da Messina, allestimento

Ero convinto che la partenza della ferrea Gabriella Belli avesse minato per sempre la potenza e la qualità di un museo straordinario. Ma i fatti, quindi la mostra, hanno spazzato via ogni dubbio. La lucidità delle parole di Ferdinando Bologna e di Salvatore Settis alla conferenza stampa del 4 ottobre scorso, ha scritto la parola fine a tutte le possibili polemiche che fino a qualche ora prima dell’inaugurazione hanno tenuto occupati i giornalisti siciliani e trentini pronti a svelare i retroscena di un (per fortuna non avvenuto) troppo ritardatario NO al prestito dell’Annunciazione della Galleria Regionale di Palazzo Bellomo di Siracusa e dell’Annunciata della Galleria Regionale di Palazzo Abatellis.

La mostra, anche attraverso un interessante, ma non straordinario, allestimento a cura di Giovanni Maria Filindeu, mette in luce il percorso stilistico e di formazione di un pittore che a metà del Quattrocento diviene il massimo interprete di quel grande fermento creativo del “crogiuolo mediterraneo” incentrato sull’incontro tra la civiltà fiamminga e quella italiana, che trova a Napoli (luogo di formazione del giovane Antonello) una delle sue più interessanti e ancora troppo sconosciute risultanti.

Tutto questo attraverso un metodo di studio che è quello del confronto, non a caso anche il nome della rivista semestrale che il professor Bologna ha fondato e dirige dal 2003.

Proprio nel, e sul confronto sta la novità e l’importanza dì questa mostra che si contrappone fermamente alla precedente esposizione del 2006 delle Scuderie del Quirinale a cura di Mauro Lucco. La mostra romana, pur importante occasione di conoscenza e di studio per l’elevato numero di opere del maestro presenti nel percorso espositivo (ventinove opere compresi i due disegni del Metropolitan e del Louvre), ha portato ad un esito a dir poco distruttivo. Lucco, portando avanti un operazione revisionista già avviata nei decenni precedenti, ha negato l’adesione “di incomparabile intelligenza del messinese alla lezione di Piero della Francesca”, scelta questa sottolineata e forse favorita da un allestimento ben diverso da quello luminoso ed arioso di Carlo Scarpa per la prima esposizione post bellica di Antonello nel 1953 a Messina. Le sale di Roma infatti erano costellate da “uno straordinario effetto di crepuscolo, punteggiato dall’illuminazione a faretti direzionali sulle tavole, le quali, spesso inserite nei climabox, tendevano ad una sorta di isolamento iconico” rendendo Antonello un stella unica in una scena artistica deserta e non coinvolgente. La mostra roveretana reinserisce invece il messinese nella sua scena artistica e stabilendo riferimenti figurativi rigorosi avvicina le opere del maestro a quelle di altri importanti protagonisti suoi contemporanei da Colantonio a Fouquet a Van Eyck, da Bellini ad Alvise Vivarini, o ancora avvicinandolo ad artisti meno noti ma insigni come il Maestro di San Giovanni da Capestrano (identificato come Giovanni di Bartolomeo dall’Aquila), Antonio da Fabriano e Zanetto Bugatto, tenta di far comprendere ad un ampio pubblico come tutte le situazioni sono il frutto di un incrocio di rapporti e di costruzioni culturali.

I curatori, attraverso un percorso espositivo che parte dalla formazione napoletana di Antonello tra esperienze provenzali, centro italiane e fiamminghe (Ferdinando Bologna non esclude un soggiorno napoletano di Piero della Francesca come dimostra la presenza in mostra del ritratto di seguace napoletano di Alfonso d’Aragona del Musee Jacquemart-Andrè di Parigi), riportano finalmente a una rilettura, già suggerita nel 1914 da un giovane Roberto Loghi (maestro di Bologna), dello stretto rapporto dell’arte di Antonello con la grande lezione prospettico luminosa del perfrancescanesimo. Un rapporto riscontrabile non solo nella fase matura, ma lungo l’intero arco della vita artistica di Antonio di Antonio, secondo modalità ogni volta diverse , funzionali alle urgenze espressive del momento.

Seguace napoletano di Piero della Francesca, Ritratto di Alfonso d’Aragona, cm 90 x 71, tavola Parigi, Musèe Jacquemart-Andrè, Institute de France

Seguace napoletano di Piero della Francesca, Ritratto di Alfonso d’Aragona, cm 90 x 71, tavola, Parigi, Musèe Jacquemart-Andrè, Institute de France

Una vita quindi, quella di Antonello, rivolta fin dal suo precoce arrivo a Napoli all’acquisizione progressiva della cosiddetta sintassi italiana (concetto questo sottolineato anche dall’allestimento che prima incornicia le opere in archi ogivali e poi in archi a tutto sesto) e all’aprirsi ad una dimensione europea, passando prima attraverso la milano sforzersca (argomento questo approfondito in mostra e sul catalogo grazie ai due prestigiosi prestiti dal Louvre di Parigi del “Cristo alla Colonna” e del disegno “Gruppo di donne su una piazza” ) e arrivando poi all’esito veneziano e post-venziano che concretizza nelle opere del figlio Jacobello di Antonello e di Giovanni Bellini l’inizio di una nuova civiltà figurativa.

La mostra del MART non solo ha fornito una nuova modalità di analisi e di studio di quello che potremmo definire il primo vero artista italiano (se non addirittura europeo), ma ha permesso di approfondire le ricerche circa un possibile viaggio di Antonello in Provenza (che dovremmo collocare nel vuoto documentario tra il 1457 e 1460 circa), e sopratutto di rivalutare il periodo palermitano di un giovanissimo artista osservatore del Trionfo della morte di Palazzo Abatellis appena concluso prima della sua partenza partenopea. “La «Sant’Eulalia»” come afferma lo stesso Bologna in una intervista al Giornale dell’arte “non è che la citazione, oltre che l’arricchimento di capacità stilistiche e culturali in senso pittorico, del suo fondamentale passaggio attraverso la cultura mediterranea, catalana in particolare ma con forti riprese borgognone, sulla linea di Bernat Martorell, rappresentata dal grande affresco palermitano”.

 Credo di aver abbondantemente risposto alle continue e insistenti domande di molti giornalisti e detrattori del progetto: “A pochi anni dalla rassegna romana c’era davvero bisogno di una nuova mostra su Antonello da Messina?”

Si, non solo c’era bisogno, ma ve ne era una viva e a mio parere impellente necessità, per riportare ordine e nuova linfa a studi oramai riduttivi che avevano portato Antonello ad un assurdo  ed immobile isolamento sensazionalistico. E forse la collocazione di questo evento in un Museo di Arte Contemporanea, giovane ma sopratutto vivo come il Mart e le parole di Settis, che poco prima dell’inaugurazione invitava a scorgere la presenza di Antonello nell’oggi e a considerarlo contemporaneamente un uomo del suo tempo, hanno favorito questa nuova linfa che si sentiva distintamente correre nelle bianche sale della mostra.

Antonello da Messina, Madonna and Child, Italian, c. 1430 - 1479, c. 1475, oil and tempera on panel transferred from panel, Andrew W. Mellon Collection

Antonello da Messina, Madonna con bambino, 1475 ca, oil and tempera on panel transferred from panel, Andrew W. Mellon Collection

Solo l’assoluta assenza di datazione delle opere, sia in mostra sia nelle didascalie del catalogo, annebbia la candida bellezza di un’esposizione davvero straordinaria, dove la ricerca e lo studio regnano sovrani, Un catalogo sublime, caratterizzato non dai soliti saggi introduttivi ma da un piacevolissimo dialogo tra i due curatori, non stanca mai il lettore catturandolo come un racconto giallo, favorito anche da una impaginazione e da un grafica moderne e accattivanti, tipiche di una casa editrice raffinata e ricercata come solo Electa in questi ultimi anni sa fare.

 Il 4 ottobre 2013, sono entrato curioso, seppur con molti dubbi, al Mart per la conferenza stampa di presentazione delle mostre e ne sono uscito, dopo una full immersion di due giorni, ripetute visite alla mostra, conferenze con i curatori e inaugurazione serale con celestiali musiche d’arpa, totalmente rapito ed entusiasta. Artefice di tutto ciò è stato anche il trattamento straordinario riservatomi dal giovane e gentilissimo staff dell’Ufficio Stampa del Museo trentino, in particolare dalla dottoressa Susanna Sara Mandice che mi ha concesso il mio primo accredito stampa e che non posso non ringraziare.

Una mia amica a cui ho raccontato la mia tre giorni roveretana e la mia tristezza nel dover lasciare quella città ma sopratutto quella mostra e quel museo, mi ha detto che nei musei che si amano si lascia sempre una parte del proprio cuore. Al MART ho lasciato per l’ennesima volta una parte viva e pulsante del mio cuore. Susanna se lo trovi lascialo pure lì, conservalo e tienilo vivo come solo la ricerca, lo studio e la novità sanno tenere vivo e pulsante quell’organo vitale di cultura che è il Mart, dove anche Antonello pur non perdendo il suo essere uomo di un lontano passato, riesce a far notare tutta la sua straordinaria modernità. Non a caso Bernard Berenson parlando della Madonna Benson faceva il nome di Paul Cézanne. Che l’antico non sia poi così vecchio?

A presto


 

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