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Mimmo Rotella, la forza ragionata del gesto.

La forza del gesto e la materialità che ne scaturisce è la chiave di lettura e il filo conduttore della mostra: “Mimmo Rotella, Décollages e retro d’affiches”, allestita nelle sale del Palazzo Reale di Milano e curata da Germano Celant. L’esposizione, di circa 150 opere, delimitata cronologicamente tra il 1953 al 1964, ovvero dalle prime sperimentazioni con i manifesti alla partecipazione alla XXXII biennale di Venezia e alla definitiva conferma, conduce lo spettatore alla scoperta dei décollages attraverso un itinerario antiorario che parte dall’opera ormai completa e compiuta per arrivare all’analisi minuziosa delle componenti e degli influssi che hanno permesso la nascita di tale tecnica. Il visitatore è, quindi, invitato a ripercorrere una volta giunto all’ultima sala l’intero percorso per meglio afferrare la consequenzialità delle opere e la mutevolezza del modo di utilizzare la materia stessa. Tornando sui propri passi, infatti, è lo stesso impatto visivo a facilitarci la comprensione di un progetto artistico che , sala dopo sala, sembra un continuo fieri. Dall’iniziale dubbio nel abbandonare gli strumenti del pittore ma con l’occhio verso l’esperienza delle parole in libertà di Marinetti si passa al consapevole utilizzo dei manifesti staccati dal loro luogo e uso e ricomposti nella tela come novelli ready made. Veri “staccati” dell’Italia post bellica che comincia a raccontarsi attraverso le immagini dei divi del cinema, quelle icone che sapientemente Rotella accosta per raccontare una società che comincia a perdersi e un’ atmosfera ancora così (terribilmente) attuale. Il tutto è accompagnato dall’inserimento comparativo di opere pittoriche e non, di artisti coevi al maestro calabrese del calibro di Fontana, Burri, Klein, Fautrier, Manzoni e dalla presenza del già citato Filippo Tommaso Marinetti fonte inevitabile di ispirazione e costante richiamo.

La mostra, conclusasi il 31 agosto, estrapola la sola produzione dei décollages, sicuramente la più caratterizzante dell’intero operato dell’artista; interessante la ricerca delle fonti attraverso l’accostamento di opere di natura diversa, che per lo più aiutano il visitatore a collocare nel tempo e nello spazio i testi di Rotella. La voglia di un confronto, quasi interdisciplinare, con l’Arte a lui coeva apre ad una riflessione sulle diversi componenti che hanno contribuito alla creazione di quel tratto unico che contraddistingue Mimmo Rotella. L’approdo al décollage diventa frutto di un profondo ragionamento sulla poetica dell’oggetto e sul suo ri-utilizzo in modo e con scopo diverso rispetto alla sua collocazione originaria. Il lacerto di manifesto staccato dalla sua sede pubblicitaria ritrova la funzione propagandistica dettata, questa volta, dalla volontà creativa dell’artista. I divi di Hollywood e di Cinecittà alla stregua delle immagini del circo diventano veicolo per la trasposizione dei sentimenti controversi che Rotella prova nei confronti di una società che sente sull’orlo della standardizzazione. Male che combatte con un’azione altrettanto meccanica come quella, appunto, di staccare e riattaccare manifesti, resa però unica e inimitabile dalla scelta dell’artista. L’ironia diventa fondamentale in questo gioco artistico e permette l’accumulo d’immagini e frasi spesso contrastanti tra loro; lo slogan pubblicitario divertente è accostato a un volto dall’espressione seria o al contrario frasi alienanti incorniciano facce sorridenti. Di sicuro l’elemento ironico permette anche la sdrammatizzazione dell’immagine stessa, che non è in Rotella icona universale (vedi l’utilizzo delle stesse immagini all’interno della produzione della pop art), ma quasi simbolo decadente. È indubbiamente un’umanità reificata quella raccontata dai décollages.

Mimmo Rotella a Roma, durante il rito della “lacerazione”.

Mimmo Rotella a Roma, durante il rito della “lacerazione”.

Sul finire degli anni Cinquanta c’è una porzione della produzione del maestro calabrese che alla chiave ironica sostituisce la descrizione di una realtà alienata. Opere come 3000 anni avanti Cristo (1954) Terrestre (1956) o Not in Venice (1959) ci immergono in uno scenario post apocalittico creato attraverso un uso innovativo dei materiali; i manifesti vengono incollati al contrario sulla tela che, a volte, rimane grezza tanto da mostrare le sue componenti fisiche. Sono proprio questi testi a mostrarci quanto l’opera del nostro artista sia fortemente radicata nel panorama culturale italiano; osservandole la memoria si apre verso la ricerca di una dimensione altra portata avanti da Fontana o la conversione del materiale in qualcosa di instabile cercata da Burri. Il senso di precarietà, l’ansia verso un mondo avviato verso la completa distruzione nonostante la sua apparente avvenenza si ritrova nella letteratura degli anni cinquanta e il nome è uno solo, Edoardo Sanguineti. Ancora giovane poeta, aveva captato i segnali del disfacimento sociale tanto da raccoglierli in uno stupendo e, allo stesso tempo, terribile poema, Laborintus; il lettore, guidato da una scrittura che nonostante la perdita, a volte totale, della logica costruttiva del periodo ma che non rinuncia a rifermenti danteschi e alla ricerca di significati nascosti e alchemici, cammina in uno scenario arido come la superficie lunare o come la stessa terra dopo un disastro atomico. Oltre alle comunanze semantiche evidenti sono le affinità nell’uso della materia prima; i colori, i pezzi di tela e gli stralci di manifesti estirpati dal loro ambiente sono assemblati da Rotella parimenti a quanto Sanguineti fa con le parole, che siano neologismi o richiami al nostro passato letterario.

Un altro esempio di come la coscienza di un’artista abbia una percezione diversa della realtà e sappia in anticipo leggere i tempi è quello che trapela maggiormente dall’opera di Mimmo Rotella; le sue immagini, tratte dal panorama di una società felice in procinto di affacciarsi agli anni del boom economico e che sogna la vita dei divi del grande schermo, trapelano l’angoscia di chi sente già l’ansia di una contemporaneità volta verso una inevitabile decadenza.

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