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Veermer a Roma. Una mostra tra luci e ombre.

Le riviste (anche quelle non di settore) sono piene di pubblicità, i telegiornali l’hanno “osannata” come fosse la mostra che il paese intero aspettava da anni, i quotidiani  le  hanno dedicato articoli a doppia pagina con foto a colori in alta risoluzione, i programmi radio hanno riservato spazi interni per parlarne, certo “Vermeer e il secolo d’oro dell’arte olandese” alle Scuderie del Quirinale fino al 20 gennaio 2013 non poteva essere un flop: primo, per la straordinaria operazione di marketing (pubblicità in ogni dove) e secondo, per il titolo dell’esposizione (dopo il famoso film “la Ragazza con l’orecchino di perla” il solo nome di Vermeer muove visitatori da mezzo mondo).

Ma come al solito dopo tutto questo fumo rimane poco dell’arrosto e anche in questo caso possiamo affermare con sicurezza che la saggezza popolare non ha tutti i torti. Che Vermeer (nonostante venga utilizzato nel titolo dell’esposizione) sia presente in mostra con solo otto opere, c’era da spettarselo; ma questo non deve essere certo visto come una “fregatura”.

Il maestro olandese, capofila dei pittori intimisti (uno dei pochi, se non l’unico cattolico) era molto lento nel produrre le sue opere (ne realizza non più di 50 in tutta la sua esistenza) e a causa delle sue rare firme e di un mancato apprezzamento della critica sua contemporanea, dopo la morte si perdono quasi tutte le informazioni biografiche che adesso tentiamo di ricostruire con estrema fatica. Quindi il numero di opere attribuite a Vermeer e presenti in mostra, contando il fatto che solo una ventina tra tutta la sua produzione sono “prestabili” e solo il Prado di Madrid, nel 2009, era riuscito a raccogliere in una sola esposizione 9 opere di Vermeer, è davvero eccezionale.

Ma nasce immediatamente un altro problema. Pochi sono i dipinti attribuiti a Vermeer con certezza unanime della critica e certo Giovane seduta al virginale (1670 – 1672 circa; New York, Collezione Privata) e Santa Prassede (1655; The Barbara Piasecka Johnson Collection Foundation) non sono sicuramente tra questi.

Anche un occhio inesperto come il mio o un “osservatore incantato e disinibito”  riesce a notare l’assoluta lontananza di realizzazione di Giovane seduta al virginale rispetto alle altre scene d’interno di Vermeer e gli risulta davvero difficile avvicinare con sicurezza opere di questo valore alle altre straordinarie esecuzioni come l’Allegoria della Fede (1670 -1672 circa; New York, The Metropolitan Museum of Art), opera bellissima e davvero unica, fortunatamente presente a Roma.

La mostra (scandita da eleganti pannelli colorati ideati da Lucio Turchetta, che rendono l’allestimento davvero interessante) si apre con La stradina di Vermeer (1658 circa; Amsterdam, Rijksmuseum) per poi continuare con altre cinquanta opere dei pittori più importanti della scena olandese del Seicento (il secolo d’oro per l’appunto) tra cui Pieter de Hooch, van Musscher, Carel Fabritius, Gerard ter Borch, Gabriel Metsu etc.

Nasce allora un ulteriore domanda, per me, più che legittima. Non si poteva (o meglio doveva) chiamare la mostra in un altro modo, esempio: “Paesaggisti, pittori d’architettura e intimisti: la pittura olandese del secolo d’oro” ?

Naturalmente no. Troppo pochi sarebbero stati i visitatori e, cosa ancora più tragica,  troppo pochi gli incassi. Ma la risposta più ovvia ce la fornisce Stefano Miliani nel suo articolo “Vermeer, un mito tra donne vere e Scarlett Johansson” uscito su L’unità il 26 Settembre 2012, che conclude dicendo:

“Va da sé che anche questa esposizione solleva un problema diffuso: si organizzano mostre di richiamo, anche per ragioni di conti, più che di ricerca. Però con artisti così, i visitatori si muovono e aiutano i bilanci.”

Come dare torto a Miliani? la ricerca scientifica in questa mostra non è forse un po’ carente?

In conclusione la mostra di Roma presenta un notevole sforzo di realizzazione (da premiare) ma con qualche “mancanza”. I curatori hanno voluto inserire Vermeer nel contesto pittorico di appartenenza (operazione giustissima e ammirevole) ma scegliendo troppe opere da collezioni private (americane in primo luogo, risultato questo determinato forse della presenza nella direzione scientifica di Arthur K. Wheelock Jr, curatore della National Gallery di Washington e di Walter Liedtke, curatore al Metropolitan di New York) e sopratutto scegliendo opere che “forse non sono all’altezza di rappresentare al meglio il fermento creativo di quel secolo d’oro”, come afferma Maria Luisa Prete su Insideart.

Nonostante tutto è una mostra assolutamente da visitare, quando potremo rivedere tutti questi Vermeer (o presunti tali) insieme?

A presto

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