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La dinamite nel fornello.

Esiste un metodo corretto per realizzare mostre? Per gli imbonitori di folle la risposta è ovviamente no, alcuni poi si rifiutano anche di porsi la domanda lasciando libero sfogo alla propria “emozione” (da leggersi come “ignoranza”). Ma non esiste davvero un metodo, non certo immodificabile, ma adattabile di caso in caso, per realizzare eventi espositivi?

Fino al 4 ottobre (e personalmente spero in una proroga) la Pina­co­teca Giovanni Züst di Ran­cate (Mendrisio) ospita la mostra: “Serodine nel Ticino” a cura della salvifica coppia Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa. Una piccola esposizione dalla fondamentale importanza non solo per i contenuti e le opere presenti ma anche, direi quasi soprattutto, per quelle che potremmo definire questioni metodologiche della Storia dell’arte. Non è certo un caso, infatti, che il luminoso saggio composto a quattro mani in apertura di catalogo s’intitoli: “Un’altra mostra di Serodine” e che a scriverlo siano proprio quei due curatori che negli scorsi anni non si sono certo risparmiati nelle critiche ai numerosi e ripetuti eventi espositivi che hanno imperversato nei palazzi milanesi e lombardi in genere. Solo nel 2012 la stessa Pinacoteca di Rancate aveva proposto una nuova mostra dedicata al maestro ticinese, riprendendo un suo stesso evento, con uguale tema, realizzato nel non lontano 1993, in risposta alle mostre di Roma e Locarno del 1987, all’epoca unici tasselli successivi alla storica mostra del 1950 alle Isole di Brissago (primo evento dedicato al pittore). Un successo espositivo, come scrive Agosti,  forse imbattuto anche dalla “onnipresente Artemisia Gentileschi”, eppure, continua sempre il professore dell’Università Statale di Milano “la fama dell’artista non ha ancora toccato nella consapevolezza comune il posto che le spetta, a fronte di una qualità sbalorditiva e di un manipolo di fanatici che ne hanno a cuore la grandezza”.

Giovanni Serodine, Incoronazione della Vergine con i Santi Antonio abate, Giovanni Evangelista, Pietro e Paolo con il velo della Veronica, Sebastiano e Carlo Borromeo, 1629-1630 circa, tela, cm 397 x 271, Ascona, Santi Pietro e Paolo (fotografia: Roberto Pellegrini)

Giovanni Serodine, Incoronazione della Vergine con i Santi Antonio abate, Giovanni Evangelista, Pietro e Paolo con il velo della Veronica, Sebastiano e Carlo Borromeo, 1629-1630 circa, tela, cm 397 x 271, Ascona, Santi Pietro e Paolo (fotografia: Roberto Pellegrini)

Può allora essere solo questa la semplice motivazione di una nuova mostra a meno di tre anni da quella a cura di Roberto Contini e Laura Damiani Cabrini, dove si presentavano, oltre ai dipinti certi di Serodine, nuove possibili attribuzioni e opere di artisti a lui vicini stilisticamente? Ovviamente no, l’opportunità di avere nella Pinacoteca per qualche anno in deposito la bellissima, monumentale e ingombrante tela dell’Incoronazione della Vergine, che da secoli impreziosisce l’altare maggiore della parrocchiale di Ascona, in attesa del suo lungo e complesso restauro, ha dato l’occasione alla Pinacoteca di realizzare un piccolo evento che (come affermano gli stessi curatori in una bella intervista a Cultweek) cerchi “di depurare Serodine dalle letture all’ultimo grido, dalle influenze omologanti dei pittori riscoperti nell’ultima ora” in una mostra che fin dal titolo (un solo nome e uno stato in luogo) si presenta come un progetto semplice ma profondo “senza orpelli e senza confronti, né casuali né mirati” per rivedere insieme le sole opere ticinesi del maestro. Un evento senza scoperte sensazionali  o nuovi battesimi (ad esclusione della più che probabile Testa di Ragazzo), senza “capolavori” o derivazioni e arrivi (il famoso da.. a.. di Goldin), con il puro e giusto obiettivo di fare chiarezza e riflessione all’interno di un corpus di opere, quello di Serodine, che non arriva a 20 pezzi (di cui 10 conservati in Ticino).

Appartenente ad una famiglia di Ascona, trasferita a Roma già alla fine del Cinquecento, Giovanni si forma accanto al fratello maggiore Battista, scultore e stuccatore. In poco tempo fa sua – senza i compromessi allora già correnti – la rivoluzione del Caravaggio, comprendendone persino la parte più ardua: la carica morale, non limitata alla semplice riproduzione della realtà o al perseguimento di inediti effetti di luce. All’artista ticinese, che risulta anche scultore e architetto, toccano occasioni lavorative di rilievo: dalle pale per San Lorenzo fuori le mura, San Pietro in Montorio e San Salvatore in Lauro ai quadri da stanza per il marchese Asdrubale Mattei. Tuttavia la critica del tempo non è tenera nei confronti di Giovanni, “assai bizzarro e fantastico, con poco disegno e con manco decoro”; di qui un precoce oblio.

Giovanni Serodine, Sacra Famiglia, 1625-1626 circa, tela, cm 65 x 60, Ascona, Patriziato (fotografia: Roberto Pellegrini)

Giovanni Serodine, Sacra Famiglia, 1625-1626 circa, tela, cm 65 x 60, Ascona, Patriziato (fotografia: Roberto Pellegrini)

Sarà l’attento Roberto Longhi ad accendere nuovamente il lume della conoscenza su Serodine e la sua carriera pittorica, opposta alla biografia dissoluta e oscura del più famoso Caravaggio, eppure caratterizzata da una pittura viva e ruvida di straordinaria bellezza. E così in mostra brillano nuovamente  sulle pareti scure dell’unica sala espositiva, le opere della parrocchiale di Ascona (Cristo rimprovera i figli di Zebedeo Arrivo nella locanda di Emmaus) e quella del Patriziato della stessa cittadina (Sacra Famiglia) affiancate a quella Incoronazione della Vergine con i Santi Antonio abate, Giovanni Evangelista, Pietro e Paolo con il velo della Veronica, Sebastiano e Carlo Borromeo della stessa chiesa svizzeradove un sole ticinese (anche se non sappiamo se il dipinto sia stato realizzato in loco o a Roma) punge da sinistra svelando spiragli di paesaggio tra “tronchi rugosi” e illuminando un gruppo di santi che (salvo forse San Carlo Borromeo) posseggono tutti volti di “muratori, di scalpellini, di barboni lombardi, bruni, biondi, brizzolati e scarmigliati” dipinti in “atti piuttosto generici, ma resi verissimi, convincenti dalla pulsazione scottante e macchiata della luce e dell’ombra” (Longhi). E poi ancora quel “prodigio di verità schietta, ma vista rapidamente e a distanza” del Ritratto di Cristoforo Serodine del 1628 fatto “di una pittura che spira dove vuole”, insieme al dinamitardo San Pietro che legge “dove tutto ruota intorno alla fiamma oscillante della candela di sego” che  illumina il corpo del santo, “quasi scorteccia il tavolo, incide il muro sudicio, arrovella i fogli del libraccio e si indugia sul teschio orrendo trasponendolo in una grotta preziosa, cariche di perle” (Longhi), rendono questa piccola esposizione scrigno di un Serodine puro, stimolatore di riflessioni su i temi e le tecniche adottate, pittore sperimentatore mai banale, lombardo e romano insieme.

Una monografia netta, senza contesto alcuno (a differenze delle predenti esposizioni), che spiega il pittore con Serodine stesso, pur senza rinunciare alle provocazioni di proporre, in apertura della sala, la già citata Testa di ragazzo in deposito presso la stessa Pinacoteca (avvicinabile, secondo la scheda di catalogo, ai quadri realizzati da Serodine per Asdrubale Mattei intorno al 1625) e il Cristo deriso della collezione Vivante, recente donazione dalla discutibilissima attribuzione (esposto strategicamente difronte alla Pala di Ascona vista l’oggettiva somiglianza fisionomica tra le due figure di Cristo).

Con dieci opere Agosti e Stoppa hanno lanciato una sfida di metodo, non solo facendo il punto su un autore schivo e particolarmente complesso, ma ricordando al malato sistema storico artistico italiano qual è e in che modo si realizza un’esposizione temporanea. Avevano già fatto ciò, sempre a Rancate, con la memorabile mostra “Rinascimento nelle terre ticinesi“, lo avevano ripetuto qualche anno dopo con “Bramantino a Milano” al Castello Sforzesco, sottolineandolo solo l’anno scorso con la sublime esposizione su Bernardino Luini a Palazzo Reale, ora sembrano urlarlo dalla sala del piccolo museo svizzero: le esposizioni temporanee sono frutto di ricerca e studio, compimento (ma contemporaneamente e paradossalmente anche inizio) di una discussione vitale per la Storia dell’arte che non sostituisce l’emozione al metodo critico e razionale.

L’eredità parlante di tutto ciò è quello che finalmente possiamo definire catalogo. Agosti e Stoppa, con la collaborazione grafica di Francesco Dondina (lo stesso della mostra di Bramantino) e l’editore Officina Libraria portano alle stampe un volume di rara qualità e valore. Non un catalogo espositivo ma quasi una monografia dedicata a Serodine, caratterizzata da schede di catalogo di straordinaria fattura, ennesimo simbolo di uno studio della materia che non ha dimenticato come “l’esercizio della schedatura, se ben condotto, è una condizione preliminare per quella storia dell’arte che si confronta davvero con le opere e non le prende a pretesto” (Agosti). In questa stessa linea di pensiero rientra anche la volontà dei due curatori di iniziare questo progetto con una nuova e accurata campagna fotografica, realizzata da Roberto Pellegrini (sue tutte le foto ospitate in questo post), al fine di possedere una continuità stilistica frutto di una campagna condotta in digitale ad altissima risoluzione (spettacolari i particolari presenti in catalogo) realizzata tutta nello stesso luogo, negli stessi giorni e in condizioni di luce omogenee.

SERODINE NEL TICINO Officina Libraria. 144 pp.  Rilegatura: Cartonato con plancia stampata Dimensioni: 25,5 x 30 cm  129 ill. a colori e bn  ISBN: 978-88-97737-68-1  Prezzo: 29,90 € Lingua: italiano

SERODINE NEL TICINO
Officina Libraria.
144 pp.
Rilegatura: Cartonato con plancia stampata
Dimensioni: 25,5 x 30 cm
129 ill. a colori e bn
ISBN: 978-88-97737-68-1
Prezzo: 29,90 €
Lingua: italiano

Un’opera contenuta (sia nel prezzo che nelle dimensioni) che si unisce agli altri volumi, frutto delle precedenti esposizioni realizzate dagli stessi curatori (ormai divenuti rarissimi testi da collezione tra i cultori della materia, me per primo) la cui bellezza riesce facilmente ad annebbiare anche l’unica possibile critica all’esposizione, generata dalla strana scelta del futuristico allestimento di Stefano Boeri. Le opere, esposte sui muri progettati da Tita Carloni e illuminate con eccezionale maestria da Artemide, galleggiano in un mare di oscurità (forse l’unica cosa interessante) tutte alla stessa altezza (cioè 5 metri) dettata dalle enormi dimensioni della pala dell’Incoronazione. E così, se nel soppalco le opere sono visibili ad una giusta altezza (circa un metro dal piano di calpestio), al piano terra dell’ampia sala, le due più piccole opere di Ascona, si trovano a incombere sui visitatori a circa tre metri da terra, impedendone una osservazione corretta se non affacciandosi dal già citato soppalco, che non permette comunque una buona visione della tela con Cristo rimprovera i figli di Zebedeo esposta sulla parte d’ingresso dell’ampia sala. 

In conclusione: esiste un metodo corretto per realizzare mostre? Con “Serodine nel Ticino” Agosti e Stoppa sembrano rispondere all’annoso e discusso quesito con l’unica soluzione possibile: ricerca e studio. Non può (o forse meglio non dovrebbe) esistere esposizione temporanea senza queste due fondamentali e imprescindibili fasi. Entrambe le cose, ricerca e studio, hanno permesso di dipanare la complessa vicenda familiare dei Serodine, di realizzare schede (quasi dei piccoli saggi) frutto di analisi condotte in questi anni da Elisabetta Alberti, Silvia Valle Parri e Alfredo Poncini su documenti ticinesi, di conoscere come il Ritratto di giovane disegnatore figurava forse nel romano Palazzo Spagna a metà Seicento come opera di Bernini, di smentire l’idea che Cristoforo Serodine fosse un capomastro e chiarire il soggetto del quadro del maestro ora al Prado. La pittura di Serodine, sfaldata e veloce, quasi anticipatrice nei modi e nelle tecniche di Rembrandt o Soutine, colpisce con violenza la storia dell’arte, così allo stesso modo questa mostra si scaglia con l’ennesima forte spallata contro un sistema espositivo commerciale, degradante e anti democratico. Entrambe fanno tremare e  positivamente sconvolgono. La loro potenza è inaudita e devastante, direbbe Longhi: “come dinamite in un fornello”.

A presto


FOTO DI COPERTINA: Giovanni Serodine, San Pietro che legge, 1628-1630 circa, tela, cm 91 x 133,5, Rancate, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, inv. PZ 25 (fotografia: Roberto Pellegrini)

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