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Hans Memling, pittore europeo.

L’idea di un’Europa in cui merci, ma sopratutto idee e cultura circolino liberamente trasformando il vecchio continente in un’unica nazione sembra un traguardo quasi irraggiungibile per il mondo moderno. Paradossalmente quando gli stati erano sempre in subbuglio e i loro confini estremamente labili l’osmosi era tutt’altro che un’utopia; gli estremi europei erano legati da rapporti vivacissimi capaci di annullare le distanze fisiche, sociali e culturali. È nel Quattrocento che l’Europa unita diventa realtà grazie all’Arte, quella di Hans Memling.

Questo è il filo conduttore della mostra: “Memling, rinascimento fiammingo” allestita alle Scuderie del Quirinale dal 11 ottobre 2014 al 18 gennaio a cura di Till – Holger Borchert. L’esposizione è un’ ambiziosa prima volta per il pittore fiammingo in Italia ed è strutturata in modo tale da non tralasciare nessun aspetto della sua esperienza creativa. Le sette sezioni introducono il fruitore ad una diretta conoscenza della pittura, dell’artista, dell’uomo d’affari capace di intelaiare veri e propri rapporti commerciali con i suoi committenti.

Al Compianto sul Cristo morto di Rogier van der Weyden spetta il compito di introdurre gli anni della formazione; nessun documento conosciuto attesta l’appartenenza di Hans Memling alla bottega del presunto maestro anche se inevitabili contingenze marchiano la prima produzione. In particolare è la vena intimistica della devotio moderna, che pervade i grandi trittici come i piccoli formati pensati per il culto privato, a legarlo all’illustre predecessore. Ben presto l’attenzione alla componente psicologica unita allo studio del dato realistico favorisce la nascita di uno stile talmente personale ed universale al tempo stesso da diventare connotante per un’epoca. La vera chiave di volta è il Giudizio Universale per Angelo Tani (conservato a Danzica) che ancora una volta non riesce ad attraversare le Alpi ed è, quindi, il grande assente alla mostra capitolina.

Così consolidato lo stile di Memling non può che sfociare nel rinnovamento iconografico; rifonda in toto il modo di ritrarre, e l’esposizione profondamente indaga la sua abilità ritrattistica, inventa uno schema narrativo, quello della Passione di Cristo, in grado non solo di raccontare le storie della passione ma di coinvolgere direttamente, e mai banalmente, lo spettatore. Tra le torri di una Gerusalemme surreale, che perde l’unità di tempo ma non quella concettuale dello spazio, il cammino verso la redenzione non è solo quello delle figure dipinte ma diventa percorso per l’uomo. Bellissimo, all’interno della discussione sulla portata narrativa di questa tipologia di opera, l’accostamento con Beato Angelico.

Il senso di progressione emerge pezzo dopo pezzo ed è un percorso guidato, ma non per questo banale, che lo spettatore, anche quello meno informato, segue per arrivare ad una vera conoscenza dell’artista, ed è un grande merito dell’evento. Il curatore riesce, infatti, a cogliere l’essenza del fiammingo attraverso la scelta e l’accostamento delle opere, l’analisi della pittura ma soprattutto grazie ad una descrizione attenta ed approfondita del contesto sociale, politico e culturale che ha permesso al suo genio di svilupparsi. La contestualizzazione è fondamentale per capire la potenza della sua arte; il Memling pittore nasce in un particolare mondo (quello della ricca e commerciale Bruges) che segue precise regole, la scelta di avvicinare ai brani i contratti che ne sanciscono la nascita, con la stessa metodologia con cui si vede stringere un patto commerciale, rende quindi tangibile l’importanza che il rapporto con i committenti (soprattutto quelli italiani, ed è qui che sta il nodo della mostra) ha avuto nel percorso creativo.

Altro felice accostamento è quello con l’arte italiana. Il modo di fare fiammingo, con la sua attenzione per la riproposizione del reale, che possa essere un paesaggio o l’interno di una bottega, con la sua lucentezza dovuta alla tecnica ad olio, conquista l’Italia e a darcene prova sono gli scritti di umanisti e pensatori che ne tessono le lodi tanto da consigliare caldamente ai principi di introdurre opere nord-europee all’interno delle collezioni, basti pensare al ruolo che Ciriaco d’Ancona svolge all’interno della corte Estense di Ferrara. Se quindi il dato realistico, la posa di trequarti o la compartecipazione emotiva quasi sconvolgono personalità come Antonello da Messina, Sandro Botticelli o Domenico Ghirlandaio, attratto a tal punto da copiare alla lettera il Cristo Benedicente, è altrettanto vero che il fascino della classicità italiana non può non stimolare Memling. Evidenti sono i richiami alla statuaria classica e alla resa volumetrica che emergono dalle figure in monocromo che spesso decorano gli sportelli dei trittici o nel motivo di putti che sorreggono le ghirlande.

Ugualmente importante è il confronto con i coevi fiamminghi e l’accostamento di brani di Memling a quelli del Maestro della Leggenda di Sant’Orsola, per citarne uno, mostra come questi testi, solo all’apparenza molto simili, siano in una continua tensione tra loro, un perenne agone in cui a vincere è lo scambio di idee stilistiche e concetti formali, nonostante sia evidente che il pittore di Bruges abbia dettato le regole.

La qualità in più della mostra romana è la forte componente esplicativa, incrementata da un catalogo decisamente utile, che ci guida sezione dopo sezione alla scoperta di un mondo in cui l’arte diventa veicolo privilegiato per l’azione politica-economica dei committenti e degli artisti stessi. Tutto si fonda su una contaminazione e compenetrazione di piani culturali e sociali che solo l’occhio moderno percepisce come distanti . Passeggiando tra le sale si scorre in rassegna la borghesia quattrocentesca e ci si accorge come la ricchezza materiale non escludeva quella culturale, anzi ne garantiva la crescita, non tralasciando sicuramente la componente dell’ostentazione.

Non soltanto la scoperta di un secolo dinamico come solo il Quattrocento sa essere, ma anche la consapevolezza che non ci si può approcciare alla comprensione di qualunque fenomeno artistico senza la conoscenza dell’ambiente che ne ha permesso la nascita. L’esposizione delle Scuderie del Quirinale è tutto questo e non solo un evento, e nonostante l’inevitabile ridimensionamento dovuto all’assenza del Trittico di Danzica non si è scalfita la sensazione di una ritrovata ricchezza che il fruitore prova alla fine del suo percorso. Rimanere coinvolti da una mostra, apprezzarne le dinamiche ed uscirne stimolato non è sempre un regola e quando succede è una bella sensazione perché fa percepire la vitalità dell’arte. L’allestimento stesso delle sale concorre a questa riuscita grazie alla decisione di posizionare le opere in modo tale da suggerire a chi guarda i collegamenti tra loro e favorirne una comprensione completa e concreta. Anche il catalogo è un valido strumento per raggiungere questa finalità; il focus principale è, ovviamente, per l’Italia e per quella schiera di committenti che sono stati determinanti non solo per lo sviluppo dell’artista in questione ma per la diffusione dell’arte fiamminga più in generale. Il saggio di Federica Varatelli, ad esempio, descrive la nazione fiorentina nelle Fiandre attraverso le dinamiche che intercorrono tra le famiglie che si avvicendano ai vertici del banco dei medici, i Tani e i Portinari, ed illustra chiaramente come il ruolo di committente fosse un valore aggiunto al loro potere, in molti casi veramente illimitato, perché sinonimo di ricchezza ma, soprattutto, strumento di invettiva contro chi osteggiava i loro interessi.

Stimolante è anche l’analisi di tutte quelle peculiarità che la pittura di Memling trasmette all’arte italiana e delle modalità in cui questa trasmissione possa essere avvenuta affrontata nel testo di Paula Nuttal che mostra una netta contraddizione tra quanto poco si sapesse sull’uomo, e le scarse notizie riportate dal Vasari ce lo dimostrano, e quanto al contrario fossero diffuse, grazie alla conoscenza diretta di alcune opere e alla circolazione di disegni o copie tratte dagli originali, le sue idee.

Nel complesso la mostra non fornisce nuovi elementi sullo studio di Memling della sua produzione artistica in patria, e probabilmente non ne era lo scopo, ma aiuta forse a mettere in luce il rapporto tra il pittore di Bruges e i committenti italiani, affiancando fisicamente opere che fino ad oggi si citavano vicendevolmente influenzandosi in un continuo gioco di rimandi.

 Sia per l’interessante occasione fornita (molte opere del maestro non erano mai state esposte in Italia) sia perché, pur non eccellendo in qualità, risulta essere un’esposizione non banale, (tralasciando le pesanti critiche in questo senso dopo la notizia del mancato arrivo del Trittico del Giudizio Universale, responsabilità non certo dell’organizzazione), merita di essere visitata e osservata con attenzione, non solo dagli amanti dell’arte quattrocentesca.


FOTO DI COPERTINA: Hans Memling, Trittico di Adriaan Reins, 1480, Olio su tavola, 43,8 x 35,8 cm (pannello centrale senza cornice); 44,5 x 13,5 cm (scomparti senza cornice), Bruges, Stedelijke Musea Brugge, Hospitaalmuseum.


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