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Paolo Veronese, l’illusione della realtà.

E’ impossibile lasciare le sei enormi sale del Palazzo della Gran Guardia di Verona e non rendersi conto di aver appena goduto non di un mero evento, ma di un nuovo importante tassello per la Storia dell’arte. Per riuscire a capirlo bisognerebbe comprendere il ruolo delle mostre ed esposizioni di arte moderna in quell’ambito ancora così giovane che sono gli studi storico artistici. Perennemente alla ricerca del grande evento che attiri visitatori, faccia staccare biglietti e faccia vendere oggettistica dal mostruoso valore estetico e dal dubbio valore morale, molti (ahimè troppi), si sono scordati che le mostre non sono occasione economica di guadagno, ma conclusione di un lungo progetto di ricerca (a volte durato anni) che trova nell’esposizione temporanea il suo compimento ma contemporaneamente e paradossalmente anche il suo inizio. La mostra è, anche se non obbligatoriamente, parte fondamentale, metodo di indagine e di studio di una materia che (Longhi lo ribadiva spesso) si deve basare sulla visione diretta delle opere e sul confronto libero e reale tra queste.

Paola Marini e Bernard Aikema hanno ridato valore alle esposizioni temporanee creando una mostra, da un punto di vista metodologico, dall’alto valore scientifico. Una mostra realizzata “in economia” con un progetto non imposto da altri (magari privati) ma realizzato interamente dalla Direzione del Museo Civico di Castelvecchio, con un corale impegno di molti settori del Comune di Verona, della Sovrintendenza e con la collaborazione dell’Università degli Studi che non ha avuto dubbi nel coinvolgere un considerevole numero di docenti, studiosi, studenti del dipartimento TeSIS e il Laboratorio di Analisi Diagnostiche non Invasive (LANIAC) dell’Ateneo.

Paolo Veronese, l’illusione della realtà (al Palazzo della Gran Guardia fino al 5 ottobre 2014) è la prima mostra monografica di tale ampiezza mai ospitata in Italia  dopo quella memorabile curata da Rodolfo Pallucchini nel 1939, che resta comunque punto fermo di confronto per l’operato dei due curatori. In quella esposizione organizzata da un giovane studioso di Storia dell’arte, futuro fondatore del Centro internazionale di studi Andrea Palladio di Vicenza e direttore, dal 1972, della Fondazione Cini, furono presentati novanta dipinti, un certo numero dei quali oggi non sarebbe neppure immaginabile sottrarre alla collocazione originale – le tele dei soffitti di Palazzo Ducale, della Marciana, della chiesa dell’Umiltà, ora nella cappella del Rosario dei Santi Giovanni e Paolo – e venti disegni. Molte delle opere che allora Pallucchini propose sono uscite dal catalogo del Caliari (grazie all’avanzamento degli studi), altre invece ritornano in questa esposizione che accoglie però (a differenza della mostra del 1939) il numero straordinario di quarantasei disegni autografi del pittore.

Paolo Veronese, Studio per Marte e Venere, © The Trustess of the British Museum, London

Paolo Veronese, Studio per Marte e Venere, © The Trustess of the British Museum, London

Ed è proprio il disegno il perno fondamentale per riuscire a seguire un percorso diviso in sei sezioni che rispettano un ordine cronologico seppur in realtà basate su alcune divisioni tematiche: la formazione, i fondamentali rapporti dell’artista con l’architettura e gli architetti (da Michele Sanmicheli a Jacopo Sansovino a Andrea Palladio), la committenza, i temi allegorici e mitologici, la religiosità, e infine le collaborazioni e la bottega, importanti fin dall’inizio del suo lavoro (Haeredes Pauli).

I disegni, coraggiosamente esposti al centro delle sale con un allestimento straordinario (progettato da Alba Di Lieto con Nicola Brunelli) , quasi a formare “la spina dorsale” della mostra, (scelta no­to­ria­mente dif­fi­cile e spe­cia­li­stica, che crea solitamente no­te­voli pro­blemi a causa della diversa po­tenza delle luci ri­spetto a quella usata per i di­pinti), testimoniano la grande bravura e il particolare eclettismo del Veronese disegnatore (stranamete troppo spesso dimenticato) ma anche lo sviluppo delle ricerche sull’attività grafica del maestro (Tietze-Tietze Conrat, Rosand, Cocke, Rearick) e “soprattutto forniscono una chiave fondamentale per entrare nel suo processo creativo e nella prassi operativa sua e dei collaboratori” (Aikema).

La mostra si apre con il Ritratto di pittore diciottenne di Antonio Badile (1546), nel quale si è voluto ipotizzare (in base ad una soggettiva somiglianza con il discusso Autoritratto giovanile dell’Ermitage) una possibile immagine di un giovanissimo Paolo Caliari, dipinto dal suo maestro, del quale (dopo la morte nel 1566) ne sposerà anche la figlia Elena. Un bell’inizio per avvicinare il visitatore ad una mostra che tante nuove proposte presenta al pubblico più esperto ma anche ai semplici ammiratori e che prosegue accostando alla Conversione della Maddalena di Londra (foto di apertura), dove il giovane Veronese si rivela già un pittore indipendente e coraggioso, dotato di una incredibile padronanza del colore e capace di produrre opere ricche di un estro inventivo senza pari nel panorama artistico veronese, la “Deposizione” di Castelvecchio e, nonostante la sua consunzione, la Pala Bevilacqua Lazise, sua prima opera documentata.

“L’eccezionale Marco Curzio di Vienna, le quattro Virtù su tavola da San Sebastiano, le tre tele divise tra la Pinacoteca Capitolina e i Musei Vaticani, con la Temperanza strappata nell’Ottocento dalla villa Soranzo a Castelfranco Veneto (Treviso), aprono la riflessione sulle prime imprese decorative, in cui Paolo era affiancato da un piccolo gruppo di artisti veronesi che, dice Vasari, Michele Sanmicheli “amava come figliuoli”, alcuni dei quali furono invitati con lui a realizzare quattro pale per il Duomo di Mantova, ciclo di cui fa parte il Sant’Antonio ora a Caen.” (Marini)

A questo punto con quello che, se possibile, è un ulteriore salto di qualità, la mostra si sposta ad indagare (dopo il colpo di genio della presentazione, per la prima volta al pubblico, del ritratto di Collatino Collalto) il rapporto del pittore con Architetti e Architettura e le superbe declinazioni religiose.

Considerato il pittore decorativo per eccellenza per i suoi colori e gli atteggiamenti altezzosi ed eleganti dei suoi personaggi, è la monumentale impostazione architettonica in cui le scene vengono ambientate (come straordinarie rappresentazioni teatrali) a rendere Veronese l’interlocutore perfetto di Palladio e della moderna architettura che invadeva con forza dirompente il Veneto cinquecentesco, come ben dimostra l’enorme tela della Cena in casa di Simone della Galleria Sabauda di Torino, che immerge il visitatore (anche il più esperto) in una amorosa contemplazione. Davvero interessante è il saggio in merito scritto da Paola Marini e pubblicato nel catalogo edito da Electa che accompagna l’esposizione, dove la curatrice affronta un comparto degli studi su Veronese ritenuto fondamentale, ma al contempo ancora poco sondato dalla critica. Come poco conosciuto e male interpretato è il Veronese delle pitture religiose: non solo un semplice esecutore di cene ricche e sfarzose, ma protagonista vivo che si inserisce pienamente nel dibattito religioso della Controriforma, facendo di Paolo – grande innovatore di iconografie – uno dei maggiori e più sensibili interpreti del nuovo spirito devozionale. Come afferma Bernard Aikema nel catalogo: “questa sezione (pitture religiose) intende andare oltre l’aspetto rutilante delle immagini sacre di Veronese, cercando di indagare il contenuto di una vasta produzione di opere religiose che rispondevano a una precisa domanda e inclinazione devozionale della società del tempo”, e ben dimostra ciò la scelta di esporre la il “Riposo durante la fuga in Egitto” di Sarasota e le drammatiche prove degli ultimi anni del pittore: l’Agonia nell’orto di Brera, la pala di San Pantalon della omonima chiesa veneziana e la superba Crocifissione del Louvre del 1575.

Se tanti e davvero unici sono i prestiti (basti pensare alle quattro Allegorie della National Gallery di Londra, mai prestate tutte contemporaneamente, e al Ratto d’Europa del Palazzo Ducale di Venezia che contribuiscono a rendere superbo il capitolo dell’esposizione dedicato a “Mito e sensualità”) tante sono anche le opere negate che gravano, come ammesso dagli stessi curatori nell’introduzione al catalogo, sulla completezza di alcune sezioni. Basti allora pensare al ritratto di Daniele Barbaro (del Rijksmuseum di Amsterdam), che fu il vero motore, con Andrea Palladio, del prender forma di straordinarie architetture dipinte del maestro scaligero o ancora Il miracolo di San Barnaba o il Battesimo e tentazioni di Cristo di Brera tutte negate al prestito.

E la mostra si conclude con quello che potremmo definire il vero “coup de théâtre” volto (a mio parere) non tanto ad “emozionare” in maniera goldiniana lo spettatore per le enormi dimensioni, ma quanto a far capire lo studio e la quasi maniacale attenzione nella scelta delle opere che ha accompagnato la lunga creazione dell’esposizione: il “Convito in casa di Levi” degli Haeredes Pauli, svetta maestoso nell’ultima sala dopo un imponente restauro eseguito a porte aperte dallo studio di restauro Barbara Ferriani nei 15 mesi che hanno anticipato l’apertura dell’esposizione.

Questa enorme tela, commissionata per il refettorio della chiesa veneziana di San Giacomo alla Giudecca, permette di comprendere l’organizzazione dell’intesa attività di bottega che aiutava, e se necessario sostituiva, il maestro. Ed è impossibile quindi non ricordare coloro che creeranno (dopo la morte di Paolo) una vera e propria azienda, sfruttando il brand Veronese: gli Haeredes Pauli, il fratello Benedetto (1538- 1598) ed i figli Gabriele (1568-1631) e Carletto (1570-1596). La mostra quindi, indaga e presenta le più interessanti scoperte di quella che per anni è stata considerata la fine vergognosa dell’arte di Veronese e che invece trova, grazie alle ricerche del vincitore della borsa di dottorato del Fondo Sociale Europeo istituita nel 2010- 2012 da Università e Comune di Verona – Direzione Musei, il bravo Thomas Dalla Costa, (principale collaboratore dal punto di vista scientifico alla realizzazione dell’esposizione) nuova luce e nuovo valore.

Haeredes Pauli Veronensis, Cena in casa di Levi, Venezia, Gallerie dell’Accademia, in deposito presso il Comune di Verona

Haeredes Pauli Veronensis, Cena in casa di Levi, Venezia, Gallerie dell’Accademia, in deposito presso il Comune di Verona

Verona ha presentato sulla scena europea una mostra che nulla ha da invidiare alla grande esposizione, di qualche mese precedente, alla National Gallery di Londra, ma che ha invece sviluppato e presentato idee nuove e innovative proprio a partire dal confronto con l’evento curato magistralmente da Xavier Salomon. Pochi i rimpianti e grande la soddisfazione di un lavoro italiano di qualità che culminerà nel convegno – corredato da una sessione riservata a panels di giovani ricercatori e da una dedicata a recenti interventi di restauro – promosso e sostenuto dall’Università di Verona in programma il 25, 26 e 27 settembre prossimi. Forse solo “la mancata apertura delle grandi finestre, ottenuta da organizzatori privati di esposizioni, che ha impedito di godere dell’affaccio sull’Arena e della luce naturale che per secoli tali aperture hanno garantito”, ha intaccato leggermente il risultato di un mostra che sarebbe stata arricchita dalla presenza della luce solare diretta (come nella mostra di Londra).

Finalmente una mostra di qualità torna a riempire, a buon diritto, gli spazi di un palazzo troppo spesso occupato ignobilmente da mostre “abbuffata”, dove le opere sono accatastate in buie sale e scelte per via di una soggettiva associazione di idee di un sedicente “curatore”, che si crogiola nel realizzare Audioguide autoesaltatorie del suo operato e della sua azienda, lasciando ai visitatori non un arricchimento culturale ma solamente la possibilità di segnare con una nuova tacca sui propri bastoni l’ennesima mostra “campione di incassi”.

Bernard Aikema lo dichiara in maniera cristallina in una bella intervista a doppio con Paola Marini per Artribune:

“Il mio credo (e direi anche quello di Paola) è che oggi di mostre se ne fanno tante – e magari anche troppe! Ed è una nostra responsabilità, in quanto gestori culturali, scegliere di farle oppure no. Perché sappiamo bene che questa scelta comporta anche dei rischi. Ma tra la mostra fatta puramente per il botteghino (e qui a Verona ne abbiamo avuti diversi esempi…) e quella fatta per la semplice soddisfazione del curatore (dove vengono, quando va bene, una dozzina di visitatori…), noi abbiamo cercato di trovare il giusto mezzo. Niente di astruso, insomma: le novità ci saranno, e chi vorrà capirle sarà ben invitato a farlo!”

E continua Paola Marini:

“L’idea è stata quella di una esposizione monografica attrezzata culturalmente, attenta ai dibattiti più recenti, e che aiuti il visitatore ad approcciarsi a queste nuove tematiche. Io non credo affatto che se una mostra è scientificamente ferrata e ha delle novità debba divenire un ostacolo alla bellezza! Così come non penso che per emozionarsi sia necessario buttare dalla finestra il manuale di storia dell’arte.”

“Le novità ci saranno, e chi vorrà capirle sarà ben invitato a farlo” (senza troppe difficoltà, aggiungo io) e “non credo affatto che se una mostra è scientificamente ferrata e ha delle novità debba divenire un ostacolo alla bellezza”.

Messaggio chiaro e limpido inviato direttamente al destinatario.

A presto


In copertina: Paolo Veronese, Cristo e l’adultera, The National Gallery, London. Wynn Ellis Bequest, 1876

Info:mostraveronese.itscopriveronese.it

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