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Why Duchamp ?

Why Duchamp non è solo la domanda che molti di noi si sono posti innanzi ad uno scolabottiglie gelosamente custodito dietro la teca di un qualche museo, ma è anche la domanda che sagacemente, nel 1985 ,Henry Martin e Gianfranco Baruchello hanno posto a titolo del loro divertente saggio[1]. Insieme a loro potremmo domandare perché Marcel Duchamp sia divenuto uno degli artisti più significativi dello scorso secolo, sebbene tutto il suo lavoro e il suo pensiero, originalissimo, non sembrino confluire nella direzione di una creazione artistica davvero consapevole. Forse perché Duchamp più, e soprattutto prima, di chiunque altro ha reso l’arte non più materiale estetico, ma fonte e sorgente d’idee, elevandola, da creta grezza, a materia di pensiero filosofico?[2] L’artista francese, specie nei suoi readymade del 1915-1917 ha esemplificato la più radicale dissociazione tra estetica e arte. Una delle ragioni per cui questo artista, più che pittore, -forse creatore potrebbe essere appropriato, ma come si è accennato, creatore di idee- è ricordato, è per i suoi readymade (termine inglese che significa “già fatto”), vera e propria rivoluzione nel fare arte del secolo scorso, e forse anche nel nostro: un “già fatto” che pone questioni non ancora risolte. Più in generale Duchamp crea opere -ma può essere definita opera una pinza da ghiaccio?-  che stravolgono tutte le basi e le certezze su cui posa l’assopita nozione di opera d’arte -come quella di unicità-, creando anche un nuovo vocabolario, dal quale usciranno termini come inestetico, anartistico, colore mentale, indifferenza visiva. Ma quindi, cosa è un’opera d’arte? Che cosa è un’opera d’arte se oggi anche un pettine può diventarlo? A certe mostre di arte contemporanea, alcuni di noi potrebbero protestare per l’inanità di ciò che si trovano dinnanzi (si va da un orinatoio, ad una pala da neve, passando per una scatola di detersivo), in nome della “ingiustizia di rango”[3], ovvero in virtù del fatto che si concede la qualifica di opera d’arte a tutti i quadri  e “le cose” che vi si trovano. Un problema  vivo nell’arte moderna e molto caro a Danto, tanto da divenire causa[4] della sua speculazione sullo statuto dell’arte nella modernità, è quello delle controparti indiscernibili, realtà esteriormente uguali, ma che possono avere appartenenze ontologiche radicalmente distinte. È possibile osservare strutture parallele in entrambe le sfere, anzi, in ogni sfera dell’analisi filosofica. L’esempio con cui Danto inizia la sua Analytical Philophy of Action[5] si basa sul fatto che nella Cappella degli Scrovegni a Padova, in ciascun pannello, Cristo è mostrato con un braccio alzato (con il quale comanda a Lazzaro, benedice il popolo, caccia i mercanti etc..).

Danto sceglie questo esempio perché ritiene che la differenza fra un’azione di base e un semplice movimento corporale sia parallela, per molti versi, alle differenze tra un’opera d’arte e una mera cosa. Tale analogia si basa sul “problema della sottrazione”, che potremmo definire così: che cosa resta quando sottraiamo il quadrato nero, dal Quadrato Nero di Malevic?

Difatti gran parte della produzione dello scorso secolo non può essere definita “bella” nel senso estetico del termine. Non a caso Tristan Tzara, fondatore del dadaismo, ebbe a dire di avere un «folle e stellare desiderio di assassinare la bellezza»[6]. Il bello estetico ed il bello artistico non sono la stessa cosa, ed è una manchevolezza del linguaggio voler indicare due cose con lo stesso termine. Quello che l’arte novecentesca da Duchamp in poi sembra voler suggerire è che la bellezza è solo una delle tante caratteristiche estetiche, mentre l’estetica filosofica si è paralizzata concentrandosi rigidamente sulla bellezza: «la vera arte potrebbe non essere bella»![7] Duchamp ha aperto la strada a tutta l’esperienza novecentesca, e con il suo fare ha messo in discussione che la bellezza faccia ancora parte dell’arte, e ha mostrato come l’esperienza artistica sia di gran lunga più ricca del “distacco dal retinico”, che lui stesso ha sostenuto.[8] Si ricordi a questo proposito la difficile missione di Duchamp: trovare un oggetto che non abbia alcuna proprietà estetica, che sia il più possibile antiartistico, anzi, anestetico. Ecco perché per un momento, presi dalla vertigine, crediamo che il mondo dell’arte sarebbe deturpato se vi accogliessimo Brillo Box. Ma in questa paura il nostro errore sta nell’aver confuso l’opera d’arte con la sua volgare controparte nella realtà commerciale. L’opera riscatta la sua pretesa di essere arte proponendo una metafora ardita: Fountain come opera. Questa trasfigurazione di un oggetto banale non altera niente del mondo dell’arte. Porta soltanto alla coscienza la struttura dell’arte che certo, ha richiesto uno sviluppo storico affinché quella metafora fosse possibile, e nel momento in cui lo è diventata, Fountain è si è fatta inevitabile, perché il gesto doveva essere compiuto, con questo o con altri oggetti. Come opera, compie quel che le espressioni d’arte hanno sempre fatto: esteriorizzare un modo di vedere il mondo, esprimere l’interiorità di un periodo culturale, offrire se stesse come specchio della nostra coscienza. Lungi dall’essere irritati dall’operato di questo grande scacchista, pittore, e forse addirittura filosofo del quotidiano, dovremmo nutrire verso di lui un atteggiamento di gratitudine: siamo noi, tramite le nostre facoltà intellettive a identificare il pensiero tramite cui l’oggetto duchampiano deve essere interpretato. Una delle lezioni fondamentali che Duchamp ci ha lasciato sta proprio nell’assumere un atteggiamento perennemente attivo di fronte alle sue opere e alle sue parole, interrogandoci di continuo. In questo senso possiamo trovare qualcosa di filosofico in Duchamp, nell’atteggiamento che ci lui sprona ad assumere nei confronti della realtà che ci circonda. Ogni conoscenza pregressa che noi abbiamo del mondo dell’arte, è inutile per Duchamp. Egli è un rivoluzionario, il suo pennello fu la baionetta che utilizzò per mettere soqquadro il mondo dell’arte.

Le sue opere possono essere interpretate solo se, soffermandoci, cercando di interrogarle e crearle, veniamo a creare un fecondo rapporto con esse, solo se le ricreiamo e le facciamo nostre.

Dobbiamo avvicinarci ad esse con spirito sgombro da preconcetti ed interpretazioni obsolete.

Con spirito filosofico, dove per filosofico intendiamo colmo di meraviglia, e pronto ad accogliere la cosa nella sua interezza.

Ogni conoscenza pregressa è da eliminare in favore della sana confusione che sta per pervaderci.

 «Ecco: ho studiato a fondo, ahimè. Filosofia, // Diritto e Medicina; ma anche, pur troppo, la Teologia!// Ho  faticato e sudato. E mi trovo qui, povero pazzo, che ne // so oggi quanto ne sapevo ieri. Mi chiamano Maestro, anzi // Dottore; ma intanto sono ormai dieci anni, che porto //  per il naso in su e in giù, per diritto e per traverso //, i miei scolari. Per accorgermi, che tanto, non ne sapremo mai//nulla. Per poco il cuore non mi scoppia!»[9].

 


[1] Baruchello G. e Martin H., Why Duchamp: An Essay on Aesthetic Impact, McPherson, New York 1985.

[2] Si veda a questo proposito il ruolo fondamentale conferitogli anche da altri grandi artisti del ‘900, come Magritte, la cui speculazione pittorica si muoveva nella dimensione dell’ “a-mentale”. Egli, durante una conferenza del 1938 disse «è una completa rottura con le abitudini mentali proprie degli artisti prigionieri del talento, del virtuosismo e di tutte le piccole specialità estetiche. È una nuova visione, nella quale lo spettatore ritrova il suo isolamento e intende il silenzio del mondo» e cita come esempio di questa ventata d’aria fresca nella pittura dello scorso secolo proprio «l’attività artistica di Marcel Duchamp, che proponeva nel modo più naturale di servirsi di un Rembrandt come di un’asse da stiro».  Cit. da G. Cortenova, Magritte, Art Dossier, Giunti, 1991 Milano, p.32.

[3] A. Danto,  La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte. Editori LaTerza, Roma-Bari 2011 p. 4

[4] In particolare si ricordi la maniera quasi “ossessiva” con cui Danto parlò delle Brillo Box, tanto da domandarsi «allora perché le Brillo Box sono diventate la base di partenza per la domanda che costituiva il fondamento della mia filosofia dell’arte? (…) ma la domanda che mi ha ossessionato sarebbe mai stata formulata se non fosse stato per la realizzazione di Harvey di un prodigio del disegno commerciale? Io penso che anche Warhol debba qualcosa a James Harvey» cit. A. Danto, L’abuso della bellezza, Postmdedia 2008 Milano, pp. 27-28.

[5] A. Danto, Analitical Philosophy of Action, Cambridge University Press, 1973.

[6] E. Grazioli, (a cura di), Dada a Parigi 1918-1924, Tristan Tzara, Francis Picabia, Andre Breton, Hestia, Cernusco   Lombardo 1998, p. 36.

[7] A. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte. Editori LaTerza, Roma-Bari 2011, p. 55.

[8] In questo senso si è scelto di sostenere la tesi che vede Duchamp come “apri-strada” di qualsiasi avanguardia e rottura con l’arte e la sua missione classicamente intesa. Solo dopo di lui e grazie a lui molti altri grandi, come Kosuth, Benjamin, Danto e altri che qui si prendono in considerazione, hanno potuto esplorare i nuovi territori dell’arte.

[9] Si è scelto di terminare con Goethe, assumendolo qui come paradigma della tragicità dell’incompiutezza, dove l’incompiutezza è un sentimento che ben si lega all’operato duchampiano, quanto alla sua critica e moderna ermeneutica. Egli stesso vanifica ogni sforzo interpretativo che si può fare della sua opera, rifugge da ongi classificazione, lasciandoci soli nel nostro bagaglio culturale del tutto inutile di fronte ad un gigante muto.

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